La ragazza interrottaLa ragazza interrotta, Susanna Kaysen.

Il Concerto Interrotto (conosciuto anche come Ragazza interrotta mentre suona), è un dipinto ad olio su tela del 1660. L’artista è Jan Vermeer.

Se mai doveste passare per New York, lo trovate al Frick, poco distante da Central Park.

E’ il 1967, Susanna ci va assieme al suo professore di letteratura inglese, con il quale comincerà di lì a poco una breve e scandalosa relazione. Resta immobile davanti a quel quadro, che secondo le enciclopedie d’arte raffigura la musica come allegoria del corteggiamento (lo testimonierebbe il Cupido dipinto sul fondo). Lei ci vede tutt’altro: una mano dispotica poggiata sulla sedia, quella del maestro-amante, e una fanciulla che l’ignora indolente, troppo impegnata a fissarla, a metterla in guardia da qualcosa, a chiederle di non farlo, di aspettare, di non andare via. Susanna ci vede premura in quello sguardo, una specie di monito silenzioso a lei rivolto; ci vede risposte a domande non fatte.

E va bene, l’ho presa troppo alla lontana, ma è difficile parlare di questo libro.

Uno perché devo rendergli giustizia, visto che lo si conosce giusto per l’Oscar vinto da Angelina Jolie come attrice non protagonista del film omonimo che ne hanno tratto. E invece merita a prescindere.

Due perché l’ho letto in un giorno; un giorno in cui, a parte le minime funzioni vitali e sociali, non ricordo di aver fatto altro se non immergermi in quelle storie, quei monologhi, quei resoconti di cartelle cliniche sinteticamente agghiaccianti. Prendevo aria ogni tanto, come fossi in apnea, ma poi ricominciavo e andavo sempre più giù, sempre più a fondo, risalendo di tanto in tanto, sapendo già di dover tornare. Lei poi ha questo dono di una scrittura fluida eppure intensa: la poesia e il reale che danzano assieme senza mai pestarsi i piedi, senza inciampare. Se quel giorno mi è sembrato così pieno, e così veloce, il merito è anche di un così sapiente uso delle parole, di un così naturale talento.

Tre perché questo libro è un documento sconvolgente.

Susanna si sottopone ad una visita che dura venti minuti venti. Il dottore le dice che dovrebbe riposare, che c’è un posto che fa al caso suo. Lei è d’accordo, è un pessimo periodo, però vuole aspettare almeno la settimana prossima: ha un appuntamento. Niente da fare, deve andarci adesso. Ci rimarrà finchè non si sentirà meglio, al massimo quindici giorni.

Susanna fa il liceo, è poco più che una ragazzina. Finisce in un ospedale psichiatrico e ci rimane due anni, sulla scorta di una diagnosi con su scritto DISTURBO DELLA PERSONALITA’ BORDERLINE. Due anni. Ora, andatevi a leggere i sintomi della malattia in questione, pagina 137 del libro. Ognuno di voi ci ritroverà dentro qualcosina di sé. Ci scommetto. Nessuno escluso, se siete onesti. Non per fare del negazionismo (ci pensa l’Autrice verso la fine del romanzo, in una neanche tanto velata polemica sul senso di certe definizioni); vero è che il male in questione è tutt’oggi considerato una patologia con tutti i crismi, e lungi da me insinuare che siate un manipolo di malati psichici. Ma il punto è che qualche decennio fa un’adolescente un po’ turbolenta (e quante non lo sono), senz’altro inquieta e, diciamolo, con manie un po’ strambe, tipo ingoiare aspirine a caso, poteva essere presa e portata via di peso dalla sua esistenza affannosa. Qualche decennio fa, ma mi sa ancora oggi, c’era qualcuno che arbitrariamente segnava col gesso il confine netto che separa la normalità dalla devianza, come se davvero quel confine fosse così stabile, così certo.

La verità è che si tratta di un limite quanto mai evanescente. Una frontiera sconosciuta, a cui si vuole dare per forza un nome, una cura. Ma certe volte non c’è nome. E non c’è nemmeno bisogno di star lì a cercare una cura.

Ecco perché questo libro ci riguarda tutti.

Ed ecco perché sono passati quarant’anni, ma risulta ancora straordinariamente attuale.

Chi decide cos’è bene e cos’è male; e quanto è bene, e quanto è male quello che ognuno di noi è per se stesso e di fronte al mondo? Chi decide se e quando e perché strapparci alla vita, alla nostra ricerca interiore che guai se non fosse sofferta, e certe volte può destare preoccupazione per le sue intemperanze, ma è pur sempre nostra e tale deve rimanere, almeno fin quando non diventi una minaccia per noi o per gli altri.

Chi ha diritto di interrompere un corso, e semmai deviarlo a suon di farmaci?

Negli anni 60, in America e penso ovunque, qualsiasi dottorino di provincia aveva questo potere.

Probabilmente oggi questo non può più succedere, almeno non in questi termini: in Italia hanno chiuso i manicomi eccetera (anche se vi ricordo che i trattamenti sanitari obbligatori esistono ancora per le malattie mentali), ma ho come il sospetto che questa logica di non accettazione della diversità, in qualunque accezione la si voglia intendere, comprese le stranezze comportamentali, sia ancora largamente dominante.

Siamo tutti impegnati ad anelare a un concetto astratto di normalità, per accorgerci che non esiste affatto.

Esistono percorsi di vita, esistono mille cambi di direzione, più o meno innocui, più o meno devastanti.

E va bene, certe volte si deve decidere che un corpo, una mente, è malata e ha bisogno d’aiuto.

Ma quanta responsabilità, quanta premura occorre. Quanta competenza, certo, ma anche quanta umanità, quanto rispetto, quanta doverosa flessibilità nella ponderazione.

La stessa a cui siamo obbligati tutti noi, nel nostro piccolo, ogni volta che c’imbattiamo in qualcosa di nuovo, di diverso, di estraneo. Perché in definitiva la vita è fatta soprattutto di questo.

E adesso abbandono i toni sermonici, e vi invito alla lettura di un piccolo capolavoro ignorato. Dentro ci troverete tanta sofferenza, ma anche una straordinaria ironia. Storie vere, alcune così potenzialmente vicine alle vostre, alcune così irrimediabilmente lontane.

A proposito, ci tornerà, Susanna, al Frick. “Guarita”.

Sedici anni dopo, quel quadro è ancora lì a fissarla.

“Stavolta lessi il titolo: Ragazza interrotta mentre suona.

Interrotta mentre suona: com’era stata la mia vita, interrotta nella musica dei miei diciassette anni; com’era stata la sua vita, strappata e fissata su tela, un momento reso immobile per tutti gli altri momenti, qualsiasi cosa fossero o avrebbero potuto essere.

Quale vita può guarirne?”.

8 commenti su “La ragazza interrotta – Susanna Kaysen”
  1. Grazie per il tuo consiglio di lettura. Avevo visto un po’ il film, non tutto, ma mi aveva incuriosito. Sinceramente non conoscevo l’esistenza del libro. Credo proprio che sarà una delle mie prossime letture. Complimenti per la recensione.
    Ciao

  2. Sei suggestiva nell’intenzione e nel modo di invogliare! Ci riesci eccome! Grazie per avermi “suggestionato”! Infatti mi spinge a documentarmi ed approfondire una pizzicante curiosità. GRAZIE! daniela

  3. Ho appena finito di vedere il film ed ho cercato notizie su Susanna, quella vera. Condivido il tuo pensiero espresso nel post. Oggi come oggi CHI può dire di essere veramente al riparo da una diagnosi come quella che ha condannato la protagonista a due anni di clinica psichiatrica? Una ragazzina un po’ stramba si ritrova un’etichetta appiccicata addosso da una diagnosi frettolosa. Nella clinica assistiamo ad una parata di disagi tutti femminili. C’è la ragazza bugiarda (pseudolia fantasiosa. Che nome pittoresco!), c’è la ragazza anoressica, c’è persino una lesbica (l’omosessualità una malattia? Nel 1967 lo era!), la ragazza caratteriale (una splendida Angelina), maniacale, disadattata… un campionario di dolori e disperazione al femminile! Una storia vera e terribile che fa pensare a distanza di più di 40 anni!

  4. Ho visto il titolo del libro, e ho subito capito al volo di cosa si trattava: sono andata a vedere su internet una breve recensione. Io quella ragazza la capisco bene. Anch’io come lei ho fatto anni di psicofarmaci e ho passato ben tre cliniche prima di scoprire che il mio non era schizofrenia ma bensì un problema alla tiroide, mai preso in considerazione da tutti i medici dai quali sono stata visitata, e che comunque gli psicofarmaci non avrebbero mai fatto niente per riuscire a risolvermelo. Ora il mio calvario è finito grazie ad un medico donna che ha capito che si trattava assolutamente di una diagnosi sbagliata. Spero che questo commento possa essere di utilità a qualcuno!!!

  5. Ok
    credo sia un libro molto interessante e quello che hai scritto mi aiuta a crederlo.
    Sei stata convincente.
    Adesso… mai pensato che forse, magari, ci sia qualcuno che leggendo i vostri commenti sul fatto che “un po’ tutti soffriamo del disturbo della personalità borderline” possa pensare che vi sbagliate?
    Voglio dire… dipende da come tale “malattia” si manifesti e perché.
    Ma è pur vero che magari qualcuno ha bisogno di trovare una diagnosi per giustificare il proprio dolore… tutti allora ci sentiamo insicuri e non abbiamo autostima?
    Oppure… TUTTI per via di questo si fanno del male e soffrono?
    Io non credo…
    una persona con il disturbo della personalità borderline lo fa.
    Comunque… bel lavoro.
    Ti dico solo che mi hai fatto riflettere, ma non diamo giudizi troppo affrettati.

  6. E… se poi ci si riferisce a diagnosi troppo affrettate per sbattere una in manicomio… è molto semplice dire:
    sei affetta da disturbo della personalità borderline, per rinchiudere una che non ha niente magari…

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