Parecchie volte ho sentito dire dai grandi che sono solo un bambino. Il mio nome è Martino ed è vero che sono un bambino. La mamma ce l’ho e vivo assieme a lei ma mio papà, anche se tutte le notti cerco di sforzarmi a ricordarlo, non mi sembra proprio di averlo mai conosciuto di persona.

La mia mamma dice che non posso ricordare perché quando il mio papà viveva con noi io ero piccolo ed è passato troppo tempo da allora. In ogni caso io un padre ce l’ho e ne sono certo per via del tavolino che c’è in salotto.

E’ un tavolino di legno scuro, vecchio tipo, con una gamba sola tutta attorcigliata su se stessa, ha un doppio ripiano, di forma triangolare e per forza di cosa è ben incastrato in un angolo, un mobile perfettamente immobile.

Mi piace quel tavolino. Vi sono posate tante e tante lettere, tutte sparpagliate, senza ordine, solo alcune formano strani ventagli scoloriti. Quando nessuno mi vede mi avvicino a lui ma non tocco niente, la scrittura dei grandi credo che non la capirò mai. Quando mi ritrovo lì, ho la sensazione che il tavolino stesso mi soffi addosso il freddo che provo quando sento la mancanza di mio padre.

Qualche volta la mia mamma mi parla di papà. Dice che è un uomo importante, che lavora molto lontano, non in Italia e che non può venirci a trovare perché il viaggio costa troppo e che quei soldini lui preferisce spedirceli perché così possiamo vivere come si deve, da veri signori.

Una sera mia madre scelse una lettera a caso, di quelle appoggiate sul tavolino e, prima che mi addormentassi, volle leggermela, come fosse stata una fiaba. Mia madre in quel momento era mio padre che mi parlava: mi diceva che stava bene ma che era un po’ triste perché gli mancavamo e che tutti lo trattavano bene. Visto che lui stava bene, io non capivo perché a mia madre scendevano le lacrime. Io non dissi niente ma la guardavo e lei girò la faccia, forse si vergognava di piangere davanti a me.

Tante volte ho sentito la mia mamma parlare al telefono con la nonna, con la zia, con i grandi comunque. Parlavano sempre di leggi, di pene, di condizionale, di appelli ma non ci ho mai capito niente io di tutti quei discorsi; quelle parole mi pare di averle sentite in televisione quando con mamma guardo i telefilm dove ci sono gli avvocati che devono difendere i buoni dai cattivi.

Ogni quindici giorni la mia mamma sparisce per un giorno intero. Io sto con zia Silvia che è simpaticissima, mi porta al cinema, al bar a fare la merenda con cappuccino d’orzo  e brioscia compresa e il bello è che in quelle ore mi dimentico di tutto.

Quando alla sera torno a casa e rivedo la mia mamma sono ancora più felice e anche lei lo è e io lo sento dentro che quel giorno ha fatto qualcosa di speciale come me, ma non mi dice mai bene che cosa.

Una notte non riuscivo a dormire, mi giravo e mi rigiravo in continuazione nel letto e mia mamma nemmeno riusciva a dormire visto che la lucetta della cucina era accesa. Mi alzai e andai da lei e la vidi là, seduta, che pensava davanti ad una tazza di camomilla.

Alzò lo sguardo, mi vide e si spaventò ma subito si mise a ridere perché mi aveva riconosciuto, per fortuna non ero un fantasma come nei film! Mi fece sedere di fronte a lei:

“Piccolino… non riesci a dormire?”

“No mamma… e tu?”

“Non riesco ad addormentarmi questa sera… penso in continuazione ad una meravigliosa carrozza trainata da sei cavalli bianchi che sta per arrivare da noi… da molto lontano…”

Posò la tazza vuota nel lavandino, mi prese per mano e mi portò a dormire nel suo lettone, abbracciandomi. 

 

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