Frequentavo la quarta elementare quando arrivò un nuovo maestro. Un maestro che, secondo me, di secondo mestiere faceva il poeta.

Era alto, robusto, con la fronte spaziosa, aveva un’aria austera e malinconicamente silenziosa. Non mi faceva paura il mio maestro che di nome faceva Giacomo (ma lui si faceva chiamare semplicemente “maestro”); non mi faceva paura anche se aveva delle grandi mani, lunghe, ossute, da nobile pianista e senza anelli, lui non era sposato. Ad essere sincero mi intimoriva un po’ la sua barba nera e incolta che gli copriva metà del viso e non lasciava intravedere nemmeno l’ombra delle labbra. Noi bambini ci accorgevamo dagli occhi quando sorrideva, la peluria scura nascondeva tutto il resto.

In inverno erano due i maglioni che indossava, uno marrone e l’altro blu a righe rosse, li alternava ed erano sempre gli stessi. Lui ci insegnava tutto, la matematica, la grammatica, le scienze e la storia antica e ci faceva anche fare la ginnastica in cortile sia nei giorni caldi, sia nei giorni freddi.

Ricordo che una mattina in classe c’era una magica atmosfera, faceva particolarmente freddo, il calore della stufa non bastava ed allora il maestro si procurò della legna e la sistemò ordinatamente nel camino, pronta per essere bruciata. C’era una strana eccitazione nell’aria e lo scoppiettare del fuoco riuscì a sciogliere parecchie lingue. Ci disse di sistemare le seggiole attorno al camino e iniziò a leggerci un bel racconto, poi ad un tratto si fermò e ci guardò tutti, ad uno ad uno, in silenzio, e ad un certo punto disse:

“Se lo vorrete vi insegnerò a scrivere le poesie…”

Io e Gianni, mio compagno di banco da sempre, ci guardammo senza parlare. Noi bambini, il maestro e la poesia? Non che le poesie non ci piacessero, le poesie che ci davano da studiare a memoria le imparavamo senza problemi; io credevo che le poesie fossero come le caramelle, già confezionate e pronte per l’uso, frasi in rima da imparare a memoria a seconda delle occasioni. Io credevo che le poesie, una volta imparate, fossero come dei treni in corsa che se parti guai a fermarti se no poi perdi il filo e se ti blocchi ti danno pure un brutto voto.

Quel mattino, attorno al fuoco, il maestro ci chiese che cosa significava per noi la parola “poesia”. Rosetta rispose che era un insieme di parole belle, Antonio disse che erano le emozioni che si tramutavano in scrittura e cosi via. Il maestro non disse niente e noi, per timidezza e per rispetto, non gli facemmo nessuna domanda anche se la curiosità era tanta.

Un giorno di gennaio notai il naso del maestro quasi appiccicato alla finestra in direzione del cielo azzurro quando si girò verso di noi e con gli occhi disposti a sorriso ci invitò a metterci cappotti e cappelli. Gli era venuta un’idea, ci avrebbe portati al mare! Ci fu un grido di gioia e iniziò il movimento tipico e caotico di una classe che sta per uscire da un’aula.

La giornata era ventosa, in cielo non c’era nemmeno l’ombra di una nuvola e raggiungemmo la spiaggia in dieci minuti. C’eravamo solo noi, una dozzina di piccole persone impazzite che correvano un po’ di qua e un po’ di là chiamandosi a gran voce e facendo festa. Le nostre rincorse sulla sabbia disegnavano linee curve disordinate e circoscritte che si incrociavano in continuazione. Sentivamo tutti il vento forte che ci prendeva a sberle, il sole che picchiava, il mare rabbioso che ci veniva incontro come se ci volesse inghiottire… si iniziarono a vedere cappelli volare. Sotto di noi la sabbia scricchiolava umida e ferma. Si cominciarono a vedere paia di scarpe e calze di tutti i colori appoggiate sulla grande pietra di granito rosa in mezzo alla spiaggia. I nostri corpi spesso si fermavano, le braccia aperte come per levarsi in volo, gli occhi chiusi e l’udito attento per ascoltare i rumori che si scontravano, quelli dell’acqua e quelli dell’aria. I pantaloni tirati su fino alle ginocchia erano quelli dei più temerari, i bambini che sfioravano l’acqua gelida e schiumosa che andava e veniva alla battigia. C’era chi, fermo, fissava lo sguardo verso il punto più lontano possibile…

Il maestro, seduto su una enorme pietra a forma di poltrona, ci osservava. Mai seppi se sorrideva.

Tornammo in classe che sapevamo di mare, le facce salate, gli occhi che bruciavano un po’, le scarpe piene di sabbia… continuavamo a parlare ad alta voce, ancora convinti che il vento potesse portare via le nostre parole.

Il maestro Giacomo si sedette sopra la cattedra e tutti noi, dopo esserci sistemati, aspettavamo che ci dicesse che cosa avremmo dovuto scrivere sul foglio di carta che tenevamo stretto fra le mani.

 

Un pensiero su “Il maestro poeta”
  1. molto molto bello. Una narrazione semplice ma dettagliata, dove si percepisce il sale fra i capelli e l’odore della salsedine. Posso dire che ci si può immedesimare. Brava

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