Tito era rinchiuso in un carcere, ormai era solo questione di giorni e poi sarebbe stato giustiziato. Dopo anni nel “braccio della morte” era stata decisa la fatidica data. In quei giorni, gli ultimi della sua vita, tutto gli passava come un film. Immagini chiare nella sua mente che lo riportarono a dieci anni prima quando aveva ammazzato suo padre per difendere la sua famiglia. Nella sua vita aveva conosciuto solo il dolore, le botte, i continui stupri, doveva fare qualcosa per salvare i suoi fratelli. Non ci pensò due volte prese quel coltello e glielo conficcò nel petto, non una ma dieci volte sempre con più forza, non bastavano per tutte le volte e che suo padre aveva abusato di lui. E ora era lì in quella stanza tre metri per tre, aveva tanto tempo per pensare ma cosa strana non provava nessun rimorso, suo padre era il mostro e non lui, questo era quello che gli pesava nel cuore, quello di non avere rimorsi.
Tutto il carcere era in fermento per quell’esecuzione che aspettavano ormai da dieci anni, e anche il boia aveva affinato le sue tecniche, ora si uccide con i farmaci. Johan era Il boia dell’Arizona, soprannome che gli avevano conferito perchè aveva partecipato a molte esecuzioni e mentre era nella camera della morte, per organizzare tutto con dovizia di particolari, sentì una strana voce che sembrava sussurragli qualcosa “Tu non sei meglio dell’uomo che domani ucciderai”, “Chi ha diritto di spegnere una vita in nome della giustizia e di uno stato?”, “Anche tu domani commetterai un omicidio”. Johan cercò invano di scacciare quelle parole, ma tornavano alla mente, spesso negli ultimi giorni. Tornò dai suoi figli come faceva tutti i giorni dopo il lavoro, sembravano contenti e volevano sapere tutto sull’esecuzione di Tito, metodi usati per farlo morire, ma quella sera non aveva voglia di parlare, era preso da un senso di angoscia, non gli era mai capitato. Pensava agli occhi di Tito e al dolore dei famigliari, anche il “boia dell’Arizona” ha un cuore. Era conosciuto come un uomo freddo, spietato, che trattava tutti con distacco, eppure il caso di Tito aveva lasciato un piccolo strascico nel suo cuore. Tito non aveva nessuno, i suoi fratelli lo avevano abbandonato, non aveva amici e nessuno con cui poter parlare, aveva solo una carta e una penna e si mise sul letto incominciando a scrivere queste parole che scesero come un fiume dalla penna per trasformarsi in una lettera.

Caro boia,

mi chiedo cosa si prova quando si mette quel laccio intorno al braccio di un condannato, quando piano piano premi lo stantuffo della siringa e il liquido scende nella sua vena fino a quando la morte si porta via una vita, misera vita, vita che non vale niente ma pur sempre vita. Mi domando cosa proveresti se al posto mio ci fosse tuo figlio. La mia vita è stata in salita fin da piccolo, a cinque anni mio padre ha incominciato a picchiarmi, a stuprarmi. Più volte ho denunciato ma non hanno ascoltato, poi arrivò quel giorno, ancora una volta mio padre era furioso, continuava a picchiare i miei fratelli, io dovevo difenderli e l’ho ucciso, e ora mi trovo qui ad aspettar che tu mi faccia la famosa iniezione. Mi domando cosa sarei diventato se non mi fossi macchiato di un tale orrore, lo stato che ora mi uccide non ha fatto niente per evitare tutto ciò, tante volte abbiamo denunciato. Ricordo quando ci spogliava e ci prendeva a cinghiate, non c’era modo di farlo smettere. L’unico momento felice che ho vissuto con mio padre fu quando, in quei pochi momenti di lucidità, imbracciava la chitarra e ci cantava la canzone IL TESTAMENTO DI TITO di Fabrizio de Andrè che amava moltissimo visto le sue origini italiane. Questo è il mio testamento, quando ascolterete questa canzone, ricordatevi di colui che domani manderete a morire, ci sono alcuni versi che rappresentano il mio stato d’animo. “L’invidia di ieri non è già finita… stasera vi invidio la vita”. Già stasera vi invidio la vita, questo dono immenso, di cui ti accorgi solo quando lo stai per perdere, vi invidio i giorni che passerete in famiglia nella gioia, e quelli che trascorrete nel dolore, il calore di un abbraccio, si questo vi invidio la vita nella sua semplicità. Lo so che questo stato mi punisce per la legge del contrappasso, io mi sono preso la vita di mio padre e ora questo stato si prende la mia. Come fai a convivere con la tua coscienza, sapendo che ogni volta commetti un omicidio seppur legalizzato. Io convivo con i miei errori, ma tu lo devi fare con i tuo sensi di colpa, caro boia quando leggerai questa lettera tu avrai compiuto il tuo dovere e io non ci sarò più. Questa non è altro che una giustizia nell’ingiustizia in uno stato che si crede civile, ma la prigione e lo stato non dovrebbero rieducare chi sbaglia? E non ammazzare! Con la pena di morte si legittima ad uccidere. Non siamo Barbari e non siamo nel medioevo eppure questo mondo torna indietro. So che la mia vita non vale niente, né un rimorso non una richiesta di perdono, so che lo rifarei sono un mostro, ma la morte è un prezzo troppo grande, da sopportare da solo. Tu domani tornerai a casa, mentre io sarò deposto in una bara, ora mi chiedo così poco vale una vita umana?

Caro Tito,

ho letto con attenzione la tua lettera, mi chiedi cosa si prova ad uccidere un uomo, a dire la verità non ci ho mai pensato. Sono quasi trent’anni che lavoro in questa prigione, ho visto molte esecuzioni, i primi tempi pensavo che non ci si abitua alla morte, ma con il passare del tempo ho corazzato il mio cuore fino a farlo diventare di ghiaccio. Purtroppo è un lavoro come un altro, del resto chi arriva all’esecuzione si è macchiato di grandi delitti, con prove a carico che ne provano la colpevolezza. Con la pena di morte si ottiene giustizia, nella tua lettera mi parli di giustizia, di dignità, ma chi pensa alle famiglie delle vittime, chi gli ridarà il proprio caro, chi gli ridarà il suo sorriso, la vita non ha prezzo è vero ma chi si macchia di simili orrori non merita questo dono di vivere questa vita. Questa è giustizia. La mia coscienza è pulita, non sono io che uccido, sono legittimato dalle leggi di questo stato, marcire nelle prigioni a spese dei contribuenti no, chi uccide deve essere punito e la morte è l’unico mezzo. Forse mi dico questo per convincermi che sto facendo la cosa giusta, se penso così il peso dei miei gesti è meno duro. Mi chiedi cosa proverei se al posto tuo ci fosse mio figlio, non lo so caro Tito, tutte le mie certezze si stanno sgretolando come una casa distrutta dal terremoto, non avevo mai pensato di vedere le cose nell’ottica del condannato, ma mi è bastato una lettera una semplice frase “stasera vi invidio la vita” ed ora non so più che fare. Mi sento impotente davanti a tutto questo.

Ormai il sole era alto nel cielo, i suoi raggi entrarono nella stanza, Johan aveva avuto gli incubi tutta la notte, e quella voce non gli dava pace, continuava a ripetergli “Sei un assassino legalizzato”, “Sei un assassino” era la voce della sua coscienza, che non aveva mai interrogato. Ormai era tutto pronto, le luci dei riflettori erano puntate tutte su di lui. Tito era steso su quel lettino, pronto pronto per l’iniezione letale, per tutto il tragitto che lo portava alla “camera della morte” Tito non aveva staccato gli occhi di dosso da i suoi aguzzini, con una dignità e un orgoglio che era solo d’ammirare, ora era disteso su quel lettino, mille pensieri gli attanagliavano la mente. Johan si avvicinò a Tito per mettergli il laccio, si soffermò a guardare Tito, quegli occhi che non si staccavano mai dai suoi, era la prima volta in trent’anni di carriera che durante un’esecuzione si soffermava a guardare chi avesse davanti, come un ologramma gli si materializzo il viso di suo figlio. Quella visione lo aveva turbato, il suo colorito era simile a quello di un cadavere, bianco, continuò a ripetersi “the show must go on”, e si accinse a mettere il laccio, riguardò negli occhi quel ragazzo e ancora una volta rivide il volto di suo figlio. Invano cercò di togliersi quell’immagine dal cuore e dalla mente, ma non ci riusciva. Vide le sue mani e per la prima volta si accorse che tremavano. “Che sto facendo?” si disse, “che sto facendo?”. Poi una nebbia avvolse la sua mente e “cadde come corpo morto cade”. Si risvegliò in una stanza di ospedale, l’esecuzione di Tito era stata portata a termine dal suo vice, calde lacrime scesero dagli occhi di Johan, riuscì a liberarsi dall’angoscia e decise di andare in pensione e di onorare quel dono che ci viene dato, la vita.

“Il testamento di Tito” questo fu il nome dell’associazione che Johan fondò per combattere contro la pena di morte e il rispetto dei diritti umani nelle carceri, in onore del suo amico Tito. Grazie a lui aveva capito che la vita è quel dono che ci viene offerto una volta sola, e che nessuno si può prendere il diritto di toglierla neanche nel nome della giustizia, dignità per i detenuti condizioni più umane, perché chi sbaglia merita di poter rimediare ai propri errori, perché come dicevano i latini “errare humanum est”!

6 pensiero su “Il testamento di Tito”
  1. Personalmento sono fermamente contraria alla pena di morte, sempre e comunque, anche se davanti a tanti crimini e nefandezze, spesso mi rimane estremamente difficile essere democratica.
    Comunque la pena di morte mai, ma la condanna severa sì e, per me, non basta il buon comportamento all’interno del carcere per abbreviare la condanna, ci vuole molto di più. Chi ha sbagliato deve pagare e chi commette crimini deve sapere a quale futuro va incontro.
    5s.
    sandra

  2. Sono d’accordo con Sandra, le pene devono essere più severe, ma la pena di morte mai, è una legge disumana, che differenza c’è fra assassinare un uomo, e giustiziarlo? E’ comunque un omicidio. Ciao da Betta
    5 stelle

  3. Ringrazio chi ha commentato questo racconto, speravo in un dibattito più sapiente, comunque grazie betta e sandra.

  4. Cosa intendi con “sapiente”?
    Racconti come il tuo che non sono introdotti attraverso il Caffè Letterario, ma raccontano semplicemente una storia, vanno a toccare corde del cuore e della mente che affondano nella formazione culturale, professionale, religiosa, filosofica nonché di vita che ognuno di noi ha.
    Se chiedi un parere sullo stile è un discorso, se chiedi un dibattito sulla pena di morte e sulla sacralità della vita in generale, ognuno di noi che leggiamo sempre e con interesse ciò che tutti gli altri amici scrittori pubblicano, ognuno di noi, dicevo, può dire la sua con un distinguo personale così articolato che il numero delle pagine della Treccani sarebbe poca cosa.
    Vuoi arrischiarti a sentire il mio parere?
    Un sorriso.
    anna

  5. Testo molto struggente. Mi ricorda tantissimo il personaggio che Tom Hanks interpretò nel film IL MIGLIO VERDE. La tua è una storia che fa riflettere e ci fa capire che comunque sia, ogni vita ed ogni persona è sacra.
    Grazie per questo racconto.
    Brava!

  6. Grazie per questo racconto! Nessuno ha diritto di togliere la vita che ci viene donata!

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