Il tuo sonno si è fermato al centro del primo circolo putativo.

Immagini cose che non vorrai più vedere. In un sogno pregno d’ancestrali abbozzi nello schema di possibilità, ti muovi in modo così squisitamente maschio, che ogni donna lotta e pena, per opporti degna resistenza.

Ma mai nessuna ha conosciuto l’altra versione della tua bellezza. L’abuso ludico di sorprendere il tuo sguardo indagatore. Con atti infingardi e pratiche smodate di lussuria e piacere.

La tua bellezza è soverchiante. Non sei fatto per un sola donna.

Nel tuo fisico prepotente consumeresti dieci corpi in una sola volta.

In molte hanno cercato di possederti e tu non hai avuto alcuna considerazione. Impossibile penetrare l’altra tua magnificenza. La furtiva bontà, la saggezza, l’incanto della tua innocente compagnia. Le seguaci hanno corteggiato le tue forme ricche e perfette, solo per sedurti ed annichilirti in uno stato breve.

L’emozione di passaggio.

Desiderare un sovrano sulla terra con gli occhi accesi di livore. Come potrò riempire in una volta sola, il tentacolare abbraccio di tutte le veneri originarie del tuo regno?

Giacere al tuo cospetto è il rimedio esplicito di mungere una stella.

Spremere la curva lunga e morbida della luna.

Magari la luna, le stelle…

Inebriata rimango distesa, supina con le gambe protese in avanti. Attingendo l’innocente latte bianco nel palmo della mano per spalmarlo sulle mie vili intimità.

Tu ridi.

Massaggiando in ogni direzione possibile ti centro diritto negli occhi, sciogliendomi la lunga treccia di fili d’oro. Il mio sorriso sedurrebbe il più virtuoso asceta.

Ti fisso con uno sguardo che dura 12 lune. Con le gemme brillanti e le gote avvampate di fervore.

I nostri corpi vacillano, esausti.

Devono essere ricondotti qui, in questo talamo deserto. Distesi sulla sabbia umida e fredda del primo mattino, sentono per l’ultima volta il ribollire soffocato dell’orizzonte opaco, bizzarro e somigliante. La spuma verdastra a lavare ogni umiliazione. Ci lasceremo coprire dalle coltri come finale pudore. Per noi stessi.

Sopravissuti alle carrozze del lusso, dovremo riscendere tra la farina rovente della rena. Nei pietrami polverosi ghermiti da un occidente ammanettato. Costretti a guardare oltre il fremito serico rarefatto di una nuova stagione di martirio.

Pervasa da un sentimento d’inanità e d’infinito, ho manifestato la volontà d’avventarmi su di te, con la voracità e l’intenzione di riguadagnare il tempo. Con membra affusolate e biglie di parole di vetro.

Il mugghio assordante ricade pesantemente nell’onda morbida del cuscino, incapace di staccarsene. Scende in profondità, tra le dita sottili e gelide di me stessa che le ritrova. Freschi flauti di lingua mi sfiorano il collo e il lobo tenero dell’orecchio.

Trasalgo stordita.

Potrei lasciarmi divorare in ogni momento. Ma non da chiunque.

Tu ridi.

Teso e ostile alla lunga lama sguainata e trafitta sul tuo corpo sudato. L’amplesso violento scarica crudeli pallini di piombo. La gioventù è membrana sanguinante di vibrazioni inaudite e dolorose. I ritorni sono vetrose rotture. Il supplizio di un cannibale ipocrita nello slancio della fiamma avida di giudizio. Attraverso il barlume delle palpebre, distinguo il disegno verde dalla finestra. Le gambe bianche e le mie mani piccole. La striscia fredda della barriera metallica del letto mi penetra nella coscia.

Tu intuisci tutto.

Il dolore ci sveglia in un eccesso scatenato. Tu mi odori con la pelle e le narici. Non mi parli. Io comprendo, tranne le fasi concitate che ti portano all’erezione.

Quando la rivolta sta per esplodere all’improvviso con estrema ed esacerbata violenza. Nello spirito fulminato spuntano a intervalli regolari i colpi d’aria e di reni. I getti sprizzano dissolvendosi in arcobaleno. Impaziente di ritirarmi, ti osservo a lungo.

Uomo gemello nell’annegamento voluttuoso e codardo di un fluire incerto e vischioso. Il personale privato dissolvimento.

Io mi passo la mano tra le cosce. Sotto la mia gamba, una tela umida, intrisa d’una sostanza collosa, densa, tiepida. Non voglio più guardarmi addosso.

Spunta il sole che scompagna freneticamente il largo. Ancora viva nella bocca predatrice pronta a spingere l’ultima calda vibrazione.

Un cespuglio di ribes avvelenati diventati macchie rosse, estese e perse. Solo coaguli schiacciati che mi strangolano come una catena di gioiello, per me sola. Chiudo le palpebre nell’espressione assorta del meriggio.

Ho abbassato gli occhi per abbandonarmi in una riconciliazione solare, che restituisce sommessamente alla luce file di uomini addormentati, lambiti dalle mie lunghe lingue di carne. Tu ascolti.

E ridi.

“Non usate gli uomini come strumenti, loro sono preziose opere d’autore.

L’Arte trascende l’oggetto e il suo linguaggio per tornare ad essere Corpo.

Così nasce l’Amore.”

Greta

2 commenti su “Tu ridi”
  1. Mostri ogni volta una tale ricchezza di contenuti che l’eros dimostra d’essere una scoperta che mai finirà di stuipire.
    Un piacere leggerti, Tamara

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