Un campo profughi, una guerra nata quasi tra l’indifferenza, una delegazione umanitaria. Un’esperienza che ti segna per sempre.
Uno sguardo pulito, occhi verdi, bellissimi, che mi guardavano senza particolare curiosità; in piedi, immobile, in attesa di capire cosa avessi in testa. Non chiedeva spiegazioni, era abituata a subire, ad aspettare che fossero gli altri a decidere. Ero arrabbiato, sorpreso, imbarazzato. Un cocktail che si trasformò ben presto in un forte malessere, vista annebbiata, improvviso blocco allo stomaco; dovetti mettercela tutta per non vomitare. Per fortuna le porte dell’ascensore si aprirono.
“Quanti anni hai?” La voce era acida, come la mia bocca, un sapore acre, quasi insopportabile.
“Diciotto.”
“Da quanto tempo fai questa vita?”
Ma che cazzo te ne frega, chi sei suo padre? Domani riparti, non la vedrai mai più, di che ti impicci?
“Dal giorno del mio compleanno. Tre mesi.”
Ti sei fatta un bel regalo.
Chiedere perché, sarebbe stato grottesco. Anche se era difficile pensare di potermi sentire più ridicolo, di quanto già mi sentissi. L’avevo notata al campo profughi, troppo bella per passare inosservata, stringeva un bambino, lo teneva in braccio, quasi fosse un giocattolo; non l’aveva mai lasciato. Seguiva il cerimoniale, un po’ in disparte, non sembrava infastidita, ma nemmeno interessata. Mi era sembrata l’unica persona normale di tutto il campo, noi compresi.
Aveva lo stesso atteggiamento, anche davanti alla vetrina dove l’avevo rivista. Al posto del bambino, la borsetta, guardava la gente che affollava la piazzetta, senza sottrarsi, ma senza mostrare particolare interesse. Capelli biondi, quasi rossi, luminosi, nonostante i troppi lavaggi e il pessimo shampoo. Era bella, molto bella, senza un filo di trucco, vestita in modo dimesso, pulita, niente che lasciasse trasparire il mestiere.
Non mi sarei accorto di niente se non avessi visto il soldato allungare la banconota e prenderla sotto braccio. Il mio era stato un gesto istintivo, ero intervenuto senza pensare alle conseguenze, che per fortuna lei riuscì ad evitare, fornendo spiegazioni, che non compresi, perché la conversazione era avvenuta in inglese. L’americano sembrava perplesso, indeciso, alla fine però, tra occhiatacce e imprecazioni, si allontanò, dopo essersi fatto restituire il denaro.
“Mi scusi, non avevo capito che volesse la mia compagnia.”
Aveva pronunciato la frase in un italiano quasi perfetto, prendendomi il braccio. Mi spostai bruscamente, l’avrei presa volentieri a schiaffi, ma seppure a fatica riuscii a controllarmi.
Non ero arrabbiato con lei, non sapevo nemmeno con chi prendermela, con la guerra, con gli americani, con quegli stronzi che si illudono di mettere le cose a posto con pacchi dono e qualche banconota.
E adesso? Posso pagarla e rimandarla al campo, ma cosa cambia? E domani?
“Come ti chiami?”
“Nadia”.
Attraversammo il grande atrio dell’albergo, tutti gli sguardi erano puntati su di noi. Intuivo i sorrisini dei miei compagni di viaggio, la disapprovazione delle donne e l’odio di tutti gli altri: inservienti, ospiti, militari. Puntuale anche il cenno d’intesa e il sorriso idiota del direttore.
Maledetti imbecilli, siete talmente meschini, da non concedervi il benché minimo dubbio, pensate di aver capito tutto. Mi fate schifo, talmente schifo, che il vostro disprezzo allevia la mia sofferenza.
Spinsi il bottone. Un inserviente in divisa chiese se avessi bisogno di aiuto. Davvero anacronistico, nonostante la situazione, apprezzai il lato comico.
Quella che avrebbe dovuto essere una camera singola, era quasi un appartamento. Attaccapanni a muro sulla destra, una cassapanca di legno al centro dell’entrata che introduceva in una specie di salotto, con tanto di poltrona, divano e un tavolo. Il reparto notte, comprendeva due armadi, un letto a due piazze, un divano e un tavolino fissato al muro. I dipinti appesi alle pareti ritraevano paesaggi e nature morte. Davvero brutti. La porta del bagno era aperta, una stanzone enorme, una vasca eccessivamente grande, un box doccia, sicuramente, aggiunto di recente e un lavandino. Come d’abitudine, constatai la mancanza del bidè. Sorrisi, era ormai diventata una mia fobia, un pensiero che mi aveva accompagnato in tutti i viaggi. L’arredo era di dubbio gusto, stile tipico del regime, ma per lei era il paradiso. “Posso fare un bagno?” La vidi sorridere per la prima volta, tanto entusiasmo era motivato. Il campo ospitava circa duecento persone, soprattutto donne e bambini, quattro baracche enormi, inospitali, gabinetti e docce esterne. Uno spiazzo ampio, che la mancanza di vegetazione, faceva sembrare ancora più deprimente. Gli unici alberi, all’entrata, due pioppi, sembravano finti. Non c’era filo spinato, ma non avrebbe aggiunto niente, tanto nessuno sarebbe fuggito e comunque, nessuno l’avrebbe rincorso.
Nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone; le stanze non areate puzzavano di polvere marcia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e di latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c’era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d’estate sia d’inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite all’azione disgregante dei batteri, e così non v’era attività umana, sia costruttiva che distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo.
Patrick Süskind, si sarebbe sorpreso di non riscontrare nessuna attività umana, sia costruttiva che distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino.
Vedevo i bambini giocare, urlare, rincorrersi, ma le loro grida sembravano mute. Due uomini erano seduti in un angolo all’esterno della baracca, guardavano senza vedere, silenziosi, quasi immobili, passandogli vicino, mi accorsi che si tenevano per mano, lo facevano in un modo che non destava curiosità, i loro visi non avevano espressione e non accennarono neppure un gesto; le donne, vere padrone del campo, facevano il possibile per far apparire tutto normale, sorridevano, mostravano i figli, offrivano il caffè alla delegazione, esibendo tazzine di ceramica; sembravano marionette animate per l’occasione. Avevo l’impressione che tutto sarebbe stato smontato non appena ce ne fossimo andati e i “manichini” conservati in attesa dell’esibizione successiva.
Non c’erano odori, né profumi né puzza, sono sicuro che nemmeno il cibo avesse sapore. Anche i colori, finivano per assumere una tonalità smorzata, quasi neutra. Solamente il nero delle baracche, si distingueva dal contesto.
Un gruppo di donne, grasse e gonfie da fare spavento, stavano stendendo della biancheria e ogni tanto guardavano sorridendo verso di noi. La più giovane, si avvicinò chiedendomi di fotografarle, un breve attimo di delusione, quando comprese che le foto non erano istantanee, un solo attimo, per poi tornare a sorridere con la stessa espressione di sempre.
Ma Nadia, davanti a quella vetrina, allungando la mano e stringendo quella banconota, aveva acceso l’interruttore su un mondo reale, un mondo, che non ti permette di sfuggirgli nemmeno se corri a tavoletta con la tua auto potente. Aveva tolto quel velo dove avevi racchiuso quella realtà, che adesso ti veniva incontro e non potevi evitarla.
Adesso anche l’aria aveva un odore acre, la cucina sapeva di cipolle e la terra emanava uno strano odore di erba bruciata, anche se di erba non vi era traccia. Le urla dei bambini rompevano il silenzio e i manichini, accomunati da una disperazione che i sorrisi non riuscivano a nascondere, purtroppo erano persone.
Attesi che chiudesse la porta del bagno e uscii. Cercai un negozio nella hall, ma queste cose succedono solo nei telefilm americani, attraversai la strada e entrai in un negozio, un marcket, stando all’insegna. Le bottiglie di rakija e maraschino sugli scaffali, seppure disposte sapientemente, non riuscivano a mascherare il vuoto, il reparto dei generi alimentari non migliorava il colpo d’occhio. Il banco della carne era praticamente vuoto, fatta eccezione per una pancetta appesa ad un gancio, delle costine, probabilmente pecora e un vassoio di salcicce, talmente secche, che avrebbero potuto essere usate come arma. Il piano superiore offriva qualcosa in più, casalinghi, giocattoli e abbigliamento. In un angolo, esposte in modo piuttosto originale, un campionario, limitato ma assai ben disposto, di scarpe. Mi colpì il cartello – SCARPE ITALIANE – è davvero incredibile, come la civetteria e l’effimero, sopravvivano a tutto.
E’ bello pensare che nemmeno la guerra può uccidere i sogni, ma bisogna fare attenzione, anche i sogni possono essere pericolosi.
Quando rientrai, era a letto, ma appena vide il vestito, fece un salto e me la ritrovai davanti. Non era nuda, indossava delle mutande che mi fecero tornare con la memoria ai tempi della mia infanzia, mia nonna le avrebbe trovate carine. Sorrisi, ma lei non se ne accorse, la sua attenzione era tutta per il vestito, che aveva già indossato.
“Bellissimo.” Non nascondeva il proprio entusiasmo. “Ho sempre desiderato un vestito nero. Le signore vestono di nero.” Si, non male, tutto sommato, ma le scarpe erano troppo grandi, perciò ritornai al negozio, questa volta lei mi accompagnava. Ricordavo una situazione analoga in un famoso film americano, ma io non ero miliardario e la storia non avrebbe avuto un lieto fine. Mentre la commessa si occupava di lei, guardavo fuori, la vita scorreva normale, la guerra non era visibile, se non nelle divise dei militari. La disperazione del campo profughi era tenuta lontana dalla città, anche se c’era qualcosa nell’aria, che impediva di essere sereni.
Nadia si avvicinò e mi mostrò le scarpe, le feci indossare anche un golf leggero che aveva sbirciato senza farsi vedere e prima di passare alla cassa, aggiunsi anche un orsetto di finto peluche. In strada le offrii il braccio, che lei strinse con forza, quasi a volersi convincere che era tutto vero.
Era la fine di settembre, ma faceva ancora piuttosto caldo, passeggiammo un po’, per la cena c’era ancora tempo, la ragazza però sembrava a disagio, continuava a guardarsi intorno, fin quando scorgendo in lontananza un gruppo di militari, mi chiese di poter cambiare strada, “non voglio rovinare una serata così, incontrando qualcuno.”
Non parlai, tornammo in albergo e ritirai l’auto. Inizialmente non capì, sembrava spaventata, forse pensava fosse già finito tutto, quando la invitai a salire, non disse niente, ma l’espressione era la stessa di quando le porsi il vestito. La strada era larga e poco frequentata, si sarebbe potuto guidare ad occhi chiusi, lei si abbandonò sul sedile e chiuse gli occhi. Parcheggiammo circa mezzora dopo, davanti ad uno di quei complessi, che avevo notato durante il viaggio: casinò, ristorante, albergo e chissà cos’altro ancora.
La sala da pranzo era ospitale, invitante, arredata con gusto, tovaglie bianche, molte piante, disposte in modo da garantire una certa tranquillità, il servizio era affidato a ragazze giovanissime, naturalmente carine, vestite in modo sobrio. Cenammo lentamente, carne alla griglia, verdure al vapore, vino rosso. Divorò divertita anche una fetta di torta, una quantità di panna da fare spavento. Ogni tanto scambiava qualche frase in croato con la ragazza di turno, traducendo immediatamente per evitare di mettermi in imbarazzo. Aveva un accento che ricordava vagamente il dialetto veneto, probabilmente dovuto ai soggiorni prolungati a Fiume, da dei parenti, che aiutava nella gestione di un ristorante. Studiava lingue e quando era scoppiata la guerra, stava concludendo l’ultimo anno alle superiori. Si sarebbe iscritta all’università, il suo sogno era fare l’interprete, parlava correttamente italiano e inglese, ma riusciva a reggere una conversazione anche in francese e tedesco. Ebbe anche l’occasione per dimostrarmelo, andando in soccorso ad una delle ragazze che non comprendeva le richieste di una signora tedesca, seduta a pochi metri da noi.
“Ti piacerebbe lavorare qui?” Mi spiegò di non avere nessuna possibilità, lei era bosniaca e musulmana, i profughi erano sopportati appena e in un posto simile, l’avevano fatta entrare solamente perché era insieme a me. Avevo fatto una domanda di troppo, l’espressione serena svanì, la realtà prese il sopravvento.
Fino a quel momento, aveva solamente risposto alle mie domande, ora invece aveva iniziato a raccontare e non sembrava volersi fermare. Suo padre era stato ucciso, così come i suoi due fratelli e il cognato. Era gente semplice, coltivavano la terra, ad eccezione del cognato che faceva il meccanico; erano orgogliosi di essere contadini, non si interessavano di politica ed erano convinti che la guerra non sarebbe arrivata fino a loro. Lei studiava ed era il vanto di tutta la famiglia. Furono sorpresi una domenica durante il pranzo. Erano rimaste lei, due sorelle più piccole, la sorella più grande e il nipotino, “io mi sono salvata perché ero andata nella vigna”. Compresi solamente in seguito il significato di quelle parole, le sorelle erano state violentate, percosse e abbandonate prive di sensi, vicino ai cadaveri. Gli aiuti bastavano a malapena a mangiare, ma la sorella aveva bisogno di medicine carissime, anche perché non erano mai disponibili nelle farmacie e bisognava ricorrere al mercato nero. “Non mi dispiace fare quello che faccio, mi permette di mantenere intatto l’odio che provo. E chissà che un giorno …… naturalmente, questo non vale per te, sei la prima persona, che mi tratta in modo gentile e non mi riferisco ai regali.”
Quelle parole avevano il potere di farmi stare ancora peggio, mi sentivo addosso un carico enorme di responsabilità, come se la guerra fosse colpa mia. Allungai la mano fino ad accarezzarle una guancia, lei vi posò sopra la sua per impedire che la togliessi.
Seguì un lungo periodo di silenzio, la radio trasmetteva Almost Blue di Elvis Costello, note dolcissime, meravigliose, che rendevano ancora più palpabile la mia tristezza.
Fu lei la prima a parlare “Era dal matrimonio di mia sorella che non stavo così bene. Il mio primo bacio, Dio com’era bello Goran. Fu il primo ad essere ucciso nel mio villaggio, aveva 18 anni. Forse è stato fortunato” Avrei voluto cancellare quella disperazione, trovare le parole giuste, ma non dissi niente.
Avevo considerato quel viaggio quasi un fastidio, un atto dovuto, uno spazio da trovare in agenda.
Quella guerra, fino a quel momento era stata un motivo di discussione, di scontri interni alla sinistra, sulla opportunità di intervenire in quel conflitto. Alla vista dei morti ci si abitua, soprattutto se filtrati dalle telecamere, ma quando la realtà, si mostra con sembianze inusuali, si cela dietro gli occhi di una ragazzina cresciuta troppo in fretta, allora si, che tutto diventa difficile. Guardi un bambino, pensi al suo futuro e ti fa pena, soffri di una sofferenza vera, vorresti poter fare qualcosa, cambiare le cose. Incontri lo stesso bambino, al semaforo rosso, con la mano tesa e non lo riconosci, non distingui la sofferenza, la disperazione.
Ripensai alla foto scattata alla postazione Nato, alla paura di essere scoperto. Al cuore che si era fermato, quando da dietro i sacchi di sabbia, era comparso un soldato. Aveva attraversato la strada lentamente, venendo verso di noi, mentre il mio compagno di viaggio, sibilava “stronzo ti avevo detto di non farlo.” Il silenzio era assoluto, noi immobili in attesa, lui si accese una sigaretta, puntò il dito e mimò il gesto di infilare la pistola nella fondina, sfoderò un sorriso, a cui mancava solo la marca del dentifricio. Ci fece un cenno con la mano invitandoci a partire.
Bello lo spot. Un soldato americano che sbuca dalla trincea, un tubo di dentifricio in mano e una donna, naturalmente nuda, che grida: nemmeno la guerra può fermare il tuo sorriso, se usi il dentifricio Dentabel.
Nadia mi seguì in albergo, probabilmente pensò che fosse giunto il momento di sdebitarsi, corse subito ad aprire i rubinetti della vasca, rientrando nella stanza, si sorprese nel vedermi preparare il divano per la notte, tentò di convincermi ad usare il letto, scherzai sui miei quarantatre anni e la cacciai a colpi di cuscino, lei finse resistenza, e si infilò ridendo nel bagno, facendo sbattere la porta. A volte un bagno bollente fa miracoli. Mi svegliai di soprassalto, avvertendo una presenza, il buio era tagliato a fette dai riflessi del sole che entravano dalle fessure della tapparella, ci misi un po’ a raccapezzarmi. Nadia era accovacciata in terra vicino al divano, aveva ricavato una specie di sacco a pelo con la coperta, si era addormentata tenendomi la mano. Non so descrivere cosa provai in quel momento, i battiti del cuore sembravano impegnati in una corsa folle, un sudore appiccicoso mi scivolava giù per il collo, il fastidio era insopportabile, non avevo il coraggio di muovermi per timore di svegliarla. Rimasi immobile a guardarla per un tempo che mi sembrò lunghissimo, gli zigomi pronunciati, la guance rosa, i riccioli biondi, le conferivano un aspetto semplice, plebeo, nell’accezione più nobile del termine, niente affatto sensuale, anche se il resto del corpo, quasi interamente scoperto, era assai provocante. Un contrasto intrigante. Il respiro appena accennato, il sorriso compiaciuto nonostante la posizione, la facevano apparire ancora più bella. La tentazione era quasi incontrollabile, accarezzare quel viso, stringere quel corpo. Il ricordo della serata era ancora vivo, ma in quel momento eravamo soltanto un uomo e una donna.
Anche adesso, a distanza di anni, quando ripenso a quel momento, riprovo quelle emozioni, la paura di cedere, le gambe che faticano a sorreggerti, il timore di fare rumore, mi rivedo sgattaiolare fuori dalla stanza, la chiave dell’auto che non entra, la tentazione di tornare indietro ad ogni incrocio.
Ciao Nadia. Mi piacerebbe incontrarti in uno dei miei viaggi, magari in uno di quei noiosissimi convegni, sentire la tua voce in una cuffia, girarmi e vederti sorridere dalla tua postazione di lavoro, mentre mi guardi con i tuoi incredibili occhi verdi.
Questo racconto è stupendo, emozionante e scritto benissimo. Il contesto è descritto in modo realistico, gli intermezzi e i flash-back sono geniali e il finale… strappalacrime ma sicuramente il più adatto. Di tutti quelli che ho letto è il racconto più bello e, anche se non dovrei fare questo tipo di paragoni, mi piace di più dei racconti di Hemingway sulla guerra. Scrivi benissimo.
Claudia il tuo commento mi ha emozionato. Grazie.
Sembra di essere lì… sembra di vivere ciò che racconti, di vedere ciò che vedi, di sentire ciò che senti.
Non c’è difficoltà maggiore che quella di catturare il lettore portandolo dentro la vicenda… e col tuo racconto è stato così… io ero lì…
Grazie del viaggio…
Grazie… bellissimo racconto, con una capacità sia femminista che femminile di sentire e narrare, che riconcilia con la mascolinità del mondo. Grazie Ivan!