Lo aveva cercato a lungo.
Instancabilmente.
L’appuntamento era fissato: la stazione dei treni, la folla perfetta a riempire i silenzi, persino il sole estivo si poggiava su di lei rendendola fluida.
Languida.
Lo vide all’uscita dei treni, poggiava contro il manico della valigia standosene inclinato di traverso su una spalla: lo sguardo gli vagava tra la gente alla ricerca di qualcosa, un completo scuro troppo sbiadito non dava di lui l’impressione che fosse un uomo elegante, i capelli erano radi e brizzolati, l’altezza era priva di qualche spanna ed invitava a girargli al largo.
Si chiamava Mario, lui la riconobbe subito. Lei. Una figurina alta e snella, curata, un riflesso cangiante in quel mare di occhi e capelli che attraversano il passaggio tra la zona binari e lo spiazzo esterno.
Altrettanto, gli occhi di lei furono catturati dall’ostinato tentativo di trovare attorno dell’uomo. Lo sguardo d’impatto le celò un immediato disappunto ma al primo gesto di lui, il disgusto della prima impressione le lasciò solamente parole semplici da dire, quando lui la prese sottobraccio e le disse “andiamo”, lei lo seguì.
Un invito chiaro a cui una ragazza garbata, di animo nobile, non era capace di ostentare un rifiuto, anche se la volontà di tornarsene a casa continuava a deragliarle i movimenti del corpo e delle palpebre.
Dubbio.
Sconcerto.
Delusione.
Disagio.
Alla fine la ragazza restò comunque, “almeno parleremo” – si ripeteva, lei non è superficiale non si lascerà fermare dall’insuccesso di un’apparenza.
Lo aveva cercato a lungo.
L’uomo le aveva parlato così tante volte al telefono e lei ora riusciva a riconoscere solamente la voce, calda, dialettale, derisoria.
Si erano detti, pur mostrandosi ugualmente interessati, che le pretese della fisicità avrebbero potuto fargli cambiare idea.
Era possibile che non si piacessero.
Ma almeno dovevano provarci, dovevano darsi una possibilità.
Mario la condusse all’uscita laterale della stazione, lì prenderanno un taxi, parleranno durante il viaggio, poi vedranno – si convince lei fra sé e sé.
Quando si dovrebbero avere domande, non ne arrivano mai di precise: l’agitazione aveva iniziato a far perdere alla ragazza la connessione con la realtà. Lei continuava ad ascoltarlo, ponderava – cercando di restare il più serena possibile – quanto fosse seria ed accettabile l’idea che quello sconosciuto la portasse lontano da lì in un posto che si riservava di non comunicarle.
Non era un azzardo il suo – o forse sì? – faceva parte del gioco.
Lei si chiamava Silvia, stava cercando di capire che tipo di persona fosse, si preparava a mettersi in pista. Era sposata e non lo negava neppure, riteneva fosse corretto così; credeva nella famiglia e nei valori di antico retaggio, lei, spiegava sorridendo, era una ragazza un po’ contorta, voleva quella vita, l’amava, ma con molta fatica era cresciuta dentro di lei la consapevolezza che c’era un’altra strada che ancora non aveva intrapreso e questa le covava nell’intimo come un sogno imparziale, ambizioso, spingendola pericolosamente alla ricerca della medesima.
Mario sapeva quel poco che si erano detti ma lei lo intuiva, il suo fiuto gli stava dicendo che non si era ingannato, averla sottobraccio gli suggeriva che dopo tanto peregrinare la sua odissea era alla fine approdata alle spiagge di Itaca.
“Per favore sali” le chiede cortesemente indicandole la portiera del taxi.
Mario sorrideva benevolo, non cercava più attorno, né si fermava però sugli occhi interrogativi di Silvia che invece non smettevano di osservarlo arrangiando un appiglio per meglio assonare le proprie sensazioni incoerenti.
Incuriosita e tesa la ragazza notava che l’uomo non finiva mai di parlare, a voce alta per farsi sentire, le raccontava di lui e di amici, di lavoro e di altro, di tutto tranne di ciò che lei avrebbe voluto ascoltare – Cosa aveva intenzione di fare?
Arrivarono a destinazione discorrendo del loro carattere, Silvia si sentiva sulla difensiva, scorreva con l’indice il bordo del sedile davanti e si guardava bene dal non perdere mai la sua compostezza. Il guidatore – le era sembrato – ogni tanto le rivolgeva qualche occhiata d’interesse.
“Numero 1963” disse Mario mentre percorrevano un vialone alberato di chissà quale zona della città, erano arrivati.
Silvia chiese all’autista quale numero avrebbe potuto chiamare volendo allontanarsi da lì.
“Andiamo bene…” alle sue spalle sentì Mario che la commentava con disappunto.
In effetti voleva andarsene, lui l’aveva condotta in un quartiere della città che non conosceva. Era lontana da casa e nessuno sapeva dov’era, la paura stava prendendo il sopravvento, poteva capitarle di tutto.
Guardò verso l’edificio e vide una bella palazzina alta nove piani, una struttura signorile e moderna, dovunque fosse il rione era di un certo livello, lo dimostravano la cura dei giardini e dei viali, le ampie terrazze dei palazzi.
Accompagnando con un gesto della mano Mario la esortò ad entrare, il cuore le si fermò, si ritrovò nell’appartamento senza più ricordarsi se avessero preso l’ascensore o se fossero saliti per le scale. Non avrebbe saputo dire a che piano si trovassero.
Aveva compiuto il secondo salto, dopo averlo seguito in taxi davanti al portone d’entrata si era detta – ormai sei arrivata fin qui, sarà un rischio ma ora continua.
Mario si muoveva con frenesia nell’appartamento, non appena avevano varcato la porta prese ad attraversare da una parte all’altra la sala accogliente e spaziosa che gli si era aperta davanti, di nuovo stava cercando qualcosa.
“E’ molto carino qui” disse Silvia, non trovando altre parole oltre una frase ovvia, pensava stonasse di meno del silenzio.
“E’ di Carla” rispose lui, finalmente le nominava la sua donna, finora non vi aveva ancora fatto cenno, Silvia non sapeva se quella sera avrebbe fatto o meno anche la sua conoscenza.
Sull’idea però non voleva soffermarsi, non era sicura che incontrarla così presto le avrebbe davvero fatto piacere. Silvia fantasticava su tutto in quel frangente ma non riusciva realmente a badare a qualcosa, era troppo confusa, era troppo tesa.
“Avevi detto d’avere sete”, le stava offrendo un bicchiere di vino e quel tono destò in lei un’insana battaglia, non sapeva se doveva perdersi e stare a vedere oppure ascoltare le elucubrazioni che la sua formazione le ricordava. Ma la vera questione era che lei non si fidava, anzi non capiva come potesse fidarsi così facilmente, le sembrava addirittura una favola razionalizzare che lei stessa si trovava davvero con un uomo mai visto in un posto che nessuno sapeva. Aveva paura, aveva i sensi all’erta, ma non capiva bene perché ancora qualcosa la tratteneva.
Rideva.
“Bevi il tuo vino” la sollecitava Mario, “vieni qui, mettiti davanti a me”.
Silvia sorseggiò per alcuni secondi il liquido scuro e poi si portò dove lui le aveva indicato.
Mario iniziò a sussurrarle parole attente e chiare, delicatamente le sue mani scorsero sugli occhi di lei, volevano privarla del contorno. Silvia teneva gli occhi chiusi, mentre lui le parlava di ciò che doveva sentire e con estrema facilità, cingendole le mani – tanto che lei si sorprese – le chiese di piegare le ginocchia e di restare così davanti a lui.
Silvia testualmente obbedì, traendo un profondo respiro assolutamente silenzioso, nella speranza di non trovarsi con le spalle al muro ma di dare un senso alla ricerca che l’aveva condotta fino a quel punto.
Silvia prese posizione come Mario le avevo detto, lasciò cadere le braccia lungo il busto e avvertendo una strana mollezza, cercò un appoggio e riconobbe le ginocchia di lui seduto di fronte a lei, proteso a parlarle mentre con i palmi delle mani le teneva gli occhi chiusi.
Obbedire fu relativamente semplice, trasportarci però tutta se stessa, ammettere di esserne cosciente e infilarsi in mente che questo cambiava qualcosa, gli costava però una fatica troppo ardua per convincersi che ci sarebbe davvero riuscita.
Mario le rivolgeva frasi che le sembravano uscite da un vecchio inno sacro, imparato chissà quanto tempo prima e ripetuto così assiduamente da risultarle anche se possibile, immancabilmente come un ritornello privo di credibilità. Recitava più o meno così: “ti accolgo presso di me, con la mente – e le sfiorava le tempie, con il cuore – e le accarezzava il cuore – con il corpo – e le scivolava dalle braccia lungo i fianchi fin giù dove se ne stava in ginocchio”.
Silvia, con gli occhi chiusi, avvertiva intorno a sé il vuoto, le luci soffuse e la finestra aperta sul terrazzo le sembravano sprangate da assi di legno per le sue possibilità di fuga. Quando Mario tentò di toglierle il vestito, il tessuto così leggero la spaventò per quanto si considerasse già nuda, nuda e cieca. Silvia si chiese se dopo aver tanto cercato era questo che si era aspettata, se lo domandò in quel momento, mentre una strana tristezza l’assaliva e la rendeva immobile e ieratica anziché smodata della gioia singolare che aveva sperato. Giunse alla conclusione che non avrebbe funzionato, non sarebbe accaduto nulla quella notte, non si sentiva attratta da quell’uomo, non si ritrovava nei suoi modi. Le contraddizioni in lei sembravano formare un’entità aliena, quando le mani di lui attraversarono il breve tratto tra le spalline e la pelle delle sue scapole, rabbrividì, e non offrì il benvenuto come l’uomo pensava ma scosse decisamente la testa, quasi con violenza, a testimoniare quanto le parole non dette avessero un peso che la trascinassero lontano; infatti, si rialzò e guadagnò qualche metro di distanza.
Mario era comunque preparato anche quella risposta, non voleva che fosse facile, anzi Silvia le piaceva proprio per questo, era l’ideale per mettere in pratica il fuoco che ne alimentava le notti, desiderava scoprirla, per questo avanzò trasportando più volte la ragazza in un angolo della stanza buia mentre continuava a parlarle. Il suo tono pacato e basso era simile al bagliore delle luci accese – candele incapaci di dare sicurezza all’ambiente, ricordava la solennità di un rito.
Silvia non sapeva spiegarsi, non aveva risposte e mentre l’ascoltava capiva che nemmeno Mario gliene avrebbe portate, meditava di andarsene e la complicata profondità in cui si conosceva, la traeva in inganno, in lei prendevano corpo contemporaneamente le scintille dell’abbandono che così spesso aveva vagheggiato.
Mario la vide imprigionata, sospesa tra lo spirito che la contraeva in lunghe cantilene di paura e disperazione e l’evanescenza di un io sfavillante che con trasparente definizione le dava vita.
Silvia doveva sapere, non era mai stata una persona che si buttava via, non vedere cosa l’aspettasse dall’altra parte, la faceva sentire un animale ferito, perplesso della sua dimensione corporea, così non riusciva a capirsi con lucidità e completezza.
Il corpo dell’uomo allora si mosse in fretta, furiosamente le si precipitò addosso con l’intenzione di non perdere l’anima di lei che miracolosamente era emersa. Mario rifletté che Silvia sarebbe definitivamente precipitata nel dubbio altrimenti, eppure lei poi rammentò ogni cosa, le mani di lui come un vento l’avevano scossa ma la disorientarono al punto da sentirne il male rappreso.
Silvia istintivamente si tirò indietro, senza scambiare neppure uno sguardo, in pochi istanti raggiunse la porta dell’appartamento e perentoriamente disse “no”, il cui esatto significato spiegò gli ultimi attimi della sua reazione shock.
Se ne andò, ammettendo di trovarsi di nuovo nei suoi soliti panni, non più vittima per essere immolata.
Paure, dubbi, incertezze impossibili da eliminare: illusoria è la felicità che riesci a costruire intorno, ma un castello di carte assemblate si cela dietro un aspetto durevole e resistente. Leggendo questo racconto, ho intravisto pallide ed assorte frazioni di una vita che sa sempre ingannarmi. Silvia è un po’ tutti noi: fragile e forte, decisa ed indecisa, compare e scompare a seconda dei giorni, dei mesi, degli anni veloci ed irruenti come un’idea che sa farsi spazio nei meandri oscuri di un rifugio inesistente.