Mancava poco all’alba.
Adriano guidava calmo, asciugandosi di tanto in tanto gli occhi, che lacrimavano.
“Dissociazione della personalità, asociale, mentalmente instabile, non in grado di nuocere, ma inaffidabile, schizofrenico, a tratti paranoico, non riesce a gestirsi…”.
Questi termini gli rimbombavano ancora dentro la testa. Molto bravi i medici e gli avvocati mobilitati da sua moglie Luisa, per poterlo definire. E con queste definizioni era riuscita a ottenere la separazione e se ne era andata con i ragazzi. Le lacrime ripresero a scendere copiose.
Le asciugò bruscamente con una mano, stringendo spasmodicamente il volante con l’altra.
“Dissociazione…”. Ma cosa ne sapevano di lui?
Lavorare dalla mattina alla sera, i soldi che non bastavano mai, i mutui, i debiti, gli straordinari e Luisa che gli diceva:
“…e dove accidenti vai ogni tanto che sparisci? Hai un amante? Non è che sei gay, oltre che fallito? Ci manca anche questa!”
Le stranezze di Adriano: non fumava, non beveva, niente scappatelle apparentemente, ma spariva ogni tanto, arrivando tardi al lavoro, tardi a casa. Ma che rincasava a fare? Avrebbe voluto respirare in famiglia, rilassarsi e invece veniva accolto dalle urla e dagli schiamazzi dei reality alla tv, seguiti con religioso trasporto da tutti in casa. Meno che da lui, che si addormentava sulla poltrona, dopo aver mangiato un piatto di spaghetti appiccicoso che gli avevano a malapena lasciato sul tavolo, senza neanche coprirlo.
Niente hobby creativi, se ne fregava di palestre o piscine, solo una grande, soffocata passione per la lettura, ma in casa sua dei libri non sapevano che farsene. Un amore per il cinema, il tutto abbondantemente ignorato e ridicolizzato da Luisa e dai suoi figli. E ora lo avevano lasciato perché, a detta degli avvocati, il fatto che nella sua vita ci fossero dei vuoti che non era in grado, che si rifiutava di spiegare, dava adito a mille congetture, suffragate dalle relazioni caricate dei medici, comprovanti che pur non essendo pericoloso, non era in grado di vivere una vita normale.
Ma cosa era normale per loro? Questa domanda l’aveva fatta, ai medici e agli avvocati, peggiorando ulteriormente la sua situazione. I ragazzi, ai quali teneva molto, lo avevano lasciato. Qualcuno, Luisa, doveva aver spiegato loro che potevano continuare a vivere la bella vita degli adolescenti eterni, avere e fare le cose che contavano per loro: telefonini, videogiochi, feste con gli amici, continuare gli studi copia e incolla ricerche su internet, senza leggerle, come lui pretendeva quando voleva imporsi, tanto un diploma lo davano a tutti. E queste cose potevano averle anche senza la presenza del padre e quindi lui non era più necessario.
Luisa aveva sempre desiderato fare la bella vita, altro che il suo stipendio da impiegato, il mutuo, le privazioni! E ora doveva anche passargli gli alimenti, perché si mantenesse lei e i figli.
Il suo reddito era già una miseria, dimezzandolo addio, quindi gli avevano sequestrato la casa.
Non era stato capace di imporsi, nemmeno in quella occasione. Un giorno si era presentato l’ufficiale giudiziario, due carabinieri e un medico, non si poteva mai sapere, viste le sue condizioni psichiche.
Li aveva fatti accomodare, “un attimo”, aveva detto loro gentilmente, era uscito dal retro, salito sull’auto e se ne era andato.
Aveva passato il giorno seduto in macchina, nell’ immenso parcheggio di un centro commerciale, osservando le famiglie che andavano e venivano con i carrelli strapieni. Era sceso dalla macchina solo per comprare un panino e un’acqua minerale e per andare in bagno, evitando di guardare la gente in faccia e girando al largo da qualunque divisa, anche da quella dei vigilantes, non sapeva se il loro girovagare con il cellulare attaccato all’orecchio era perché parlavano con la ragazza o perché ricevevano informazioni su di lui.
Alla chiusura del centro commerciale si era diretto nel centro città, cambiando parcheggio diverse volte fino a trovare un angolo tranquillo sotto un condominio, dove aveva reclinato il sedile e tentato di dormire.
Forse lo cercavano. Si era svegliato nel cuore della notte con dolori dappertutto e il desiderio di una doccia. Voleva sintonizzarsi su un giornale radio, una parvenza di normalità, ma c’era troppa stupida pubblicità gioiosa e conduttori, ragazzotti e ragazzotte che scherzavano fra loro con battute pesanti, con doppi sensi per ogni dove, come se importasse a tutto il mondo la loro scoperta del sesso, come se credessero di esserne gli unici depositari, fruitori e scopritori, non gli andava di sentirli. Chissà se nei giornali radio e telegiornali avevano detto che era pazzo… si chiamavano ancora così o anche i pazzi erano portatori di qualcosa?
Forse, portatori di infelicità.
Captò un canale dove un coro di voci bianche cantava una melodia religiosa, “Panis Angelicus”. Sorrise. La conosceva bene, l’aveva scoperta su internet un paio d’anni prima, l’aveva ascoltata migliaia di volte. Non ci capiva molto di musica, ma quella lo accompagnava spesso nei suoi pensieri, conosceva ogni parola, ogni tonalità e, lo aveva notato, aveva il potere di rilassarlo e metterlo in pace con il mondo, anche se lui non aveva mai dichiarato guerra a nessuno, solamente che tutti gli erano contro, pensava.
Ma perché era così inadeguato? Gli piacevano poche cose, proprio quelle che la sua famiglia e gli altri disprezzavano o non capivano.
Invano aveva cercato di spiegarlo agli avvocati : scuotevano la testa, lo trattavano con sufficienza, non lo ascoltavano.
Per non parlare del posto di lavoro. Una volta, solo una, aveva cercato di intavolare una discussione con dei colleghi, che trattava della trasposizione cinematografica del romanzo “La bufera”, di Calandra, un libro che amava. Ricordava ancora le loro risate e gli sguardi di commiserazione per lui : non sapevano nemmeno di cosa stesse parlando, povero essere demenziale fuori dal mondo! Parlare di simili stronzate il lunedì, giorno sacro al calcio!
Ultimamente le sue assenze e i suoi ritardi in ufficio erano aumentati, non forniva alcuna spiegazione e questo aveva peggiorato ulteriormente la sua posizione, lo vedeva nello sguardo del giudice, che aveva proprio lo sguardo giusto che deve avere un giudice, molto severo, quando non guardava anche lui i messaggi sul suo telefonino.
“Non vuole dire dove va… bene, bene.”
Ma Adriano adesso era più rilassato. Pur guidando lentamente, la città era sparita alla sua vista e questo lo faceva stare bene. Più si allontanava dal centro abitato e più aveva la sensazione di respirare meglio. Il cielo cominciava ad assumere i bagliori violacei dell’alba imminente.
Lasciò la statale e prese la solita strada sterrata.
“Dove accidenti vai ogni tanto che sparisci?”
Si diresse alle falde della montagna che dominava la città. Attraversò campi contornati da vigne, con i tralci ancora neri del colore della notte, spalancati al cielo come valli di crocifissi, uliveti e frutteti ancora avvolti dall’ombra notturna, casolari sparsi addormentati. Giunse su una grande spianata completamente deserta, cosparsa all’infinito di margherite dall’odore pungente, cardi, macchie di lavanda dal profumo stordente. Era arrivato. Si fermò. Spense le luci, scese. Il silenzio che lo avvolse, assieme all’odore dell’erba bagnata di rugiada mista al fresco di quella notte primaverile, scese dentro di lui come un balsamo.
Il frinire assordante dei grilli si smorzò appena un attimo in quel momento, come disturbato da un evento inopportuno, ma poi riprese il suo tono assordante, come se i grilli avessero immediatamente appurato che non era il caso di allarmarsi, che non c’erano intrusi.
Adriano guardava estasiato la montagna che cominciava a incendiarsi dei colori rosso arancio dell’alba, con striature di fuoco. Si tolse la giacca, la camicia, poi, velocemente, tutto il resto, rimanendo completamente nudo. Avanzò in mezzo al prato, toccando lievemente con le dita i fiori più alti che gli venivano incontro accarezzandolo, avvolgendolo.
Il sole stava sorgendo. La sua sommità sporgeva come ferro incandescente dalla cima dei monti azzurrini velati appena di nebbia. Si era sempre recato lì, appena aveva potuto, anche prima di andare in ufficio. Niente amanti, corse al parco con cuffiette per cd, biciclette… no. Lì.
Il sole lo aveva sempre accolto, protetto, scaldato, amato, dato la forza di vivere la sua vita disastrosa. Non lo aveva mai abbandonato, tradito, umiliato. Cominciava a sentire il calore della Sua luce sul suo corpo. Chiuse gli occhi sentendo quel benefico contatto che riscaldava la pelle nuda. Immaginò che quello potesse essere un segno d’amore nei suoi confronti.
Sorrise felice. Si, felice.
Per il solo fatto di essere stato notato anche in quella circostanza. Il sole sapeva della sua esistenza. Lo avrebbe aiutato ancora. Non era solo nel mondo. Con il cuore colmo di questa consapevolezza, l’uomo alzò le mani verso il cielo, cadde in ginocchio e chinando il capo fino a terra lo adorò piangendo.

5 pensiero su “Altri dei”
  1. Un bel racconto, mi é piaciuto. La normalità…, che cos’é? Ha un significato diverso per molti, forse per tutti, se escludiamo quei disegni comuni imposti dalla società.
    Qui c’è un Uomo solo, che evidentemente non ha trovato nella famiglia il suo nido, il suo riposo. Lo ha trovato nella natura e questo gli ha permesso di sopravvivere e forse di trovare la forza di andare avanti.
    5st.
    Sandra

  2. Una visione della vita da un punto di vista inusuale, all’apparenza non normale, quasi una ribellione alla stupidità che troppo spesso ci circonda e a cui rispondiamo inconsapevoli con la mediocrità del branco.
    Essere se stessi e seguire le proprie passioni a volte ha un prezzo alto che può essere ripagato solo vivendo un momento magico come questo. Molto bello.

  3. Molto profondo, triste, ma anche carico in qualche modo di speranza. Il protagonista è davvero forte, sono con lui. Complimenti.

  4. Bel racconto, ma io trovo che il rifugiarsi in un dio, il sole o la natura, in questo caso, sia una fuga, prima di tutto da se stessi. Non si ripara o costruisce nulla fuggendo.
    Il protagonista non capisce perché sia stato abbandonato non riflettendo sul fatto che si è abbandonato per primo. Non c’è lotta, ma solo rassegnazione e la rassegnazione trovo sia la sua pazzia.

  5. Bellissimo racconto,
    trasmette alla perfezione tristezza, solitudine, disperazione ma anche un cenno di speranza.
    Mi rammenta il grido di Munch, sembrerebbe proprio una descrizione a parole del quadro.
    Complimenti… bellissimo racconto.

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