Non mi è mai piaciuto quel vestito. E’ sicuramente il più elegante e il meglio conservato, ma non l’ho mai indossato volentieri. Troppo nero e troppo serio. Mi ha sempre messa un po’ a disagio la sua eleganza che mi costringeva a un portamento per me innaturale. Quelle calze poi: mai avute un paio di calze così scure, di un punto di marrone orrendo e, tra l’altro, troppo spesse. E’ vero che delle calze così coprenti nascondo benissimo le mie vene e tutti i capillari rotti. Da anni le mie gambe sembravano la carta stradale di una città cresciuta selvaggiamente, senza un piano urbanistico, ma a me non importava. Ogni venuzza azzurrina era un giorno in più vissuto, il dono di un destino benevolo che dimenticava ogni mattina la mia età. Non oggi. Da qualche parte qualcuno o qualcosa deve aver fatto suonare un campanello. Forse una scritta è comparsa su di un tabellone, come quelli delle stazioni ferroviarie, con le lettere che sembrano rotolare su se stesse. Forse una voce ha detto: “È ora”. Il mio corpo si è spento. Ha fatto appena in tempo a svegliarsi e girarsi verso la finestra per vedere la luce di un nuovo giorno e puff, si è spento, congelando l’ultimo sorriso, l’ultimo grazie.
E adesso sono lì, distesa sul letto grande, con attorno e in giro per casa le persone che ho amato o solo conosciuto, in attesa che portino la cassa. Era della nonna materna questo letto dalle testate di legno di noce, pesantissimo da spostare. Mia madre ci nacque, mi mise al mondo e infine si spense su questo letto che in origine aveva quattro gambe tornite che lo alzavano parecchio da terra, come si usava un tempo. Quando ero bimba ci gattonavo sotto, raccogliendo un sacco di polvere. Poi le gambe sparirono e al loro posto comparvero dei piedi a cipolla, molto più bassi, fatti apposta da Attilio, il falegname, grande amico di mio padre. Il legno è così vecchio e le cere che gli sono state date nel tempo così scure che ormai è tutto nero. Se non fosse per alcune piccole crepe e un paio di sbucciature sui montanti della testata che fanno intravvedere la fibra sottostante si direbbe fatto di pietra nera. Anche i ricordi che il letto si porta dietro sono neri e il nero, come forse ho già detto, non mi piace.
Che stupida sono stata a non lasciar scritto che non mi piacciono le cose scure. Avrei preferito mi mettessero il vestito azzurrino, quello con i piccolissimi fiori bianchi e la cintura, della stessa stoffa, con la fibia in osso che forse è plastica dura; non l’ho mai capito. Avrei preferito mi adagiassero sul letto a una piazza sul quale ho riposato negli ultimi vent’anni o persino sul pavimento rosso della sala.
Rosso, sì. L’ho scelto io quel colore così vivo e ho dovuto quasi litigare con il decoratore, allora, per averlo; “Non sarà un po’ troppo moderno per lei?” mi ripeteva il decoratore che vedeva i miei molti anni, ma non il mio spirito. Alla fine ci si era accordati su di un rosso scuretto che ricordava il cotto fiorentino. Quante cose mi stanno passando veloci per la testa in questi momenti e che confusione. Ho sempre sentito dire che nel momento del trapasso si rivede tutta la propria vita scorrere in un attimo e non ci ho mai creduto. Ora sono un po’ confusa, ma che importa ormai. Già, che importa? Cosa rimane di importante? Da fare nulla. Come potrei? Anche se non sono più in vita sto ancora pensando o così mi sembra. Tutto mi pare strano, ma non ne sono spaventata; Percepisco un gran senso di pace e di benessere, dove i ricordi sono solo ricordi e non mi agitano più. A dire il vero, erano anni che i ricordi non mi agitavano più.
Il vestito nero, il letto grande e il pavimento sono dettagli che il caso sparge su questo momento unico e inaspettato che mi trova impreparata e per questo mi confonde.
Alla mia età le cose importanti già erano poche: il costante esercizio d’equilibrismo fra pillole, cibo, movimento e memoria, un poco di compagnia, un paio di occhiali da lettura, una radio, una poltrona comoda nel salottino, una persona come Rita per i lavori di casa, la spesa e un cioccolatino, ogni tanto, solo ogni tanto, per ricordare meglio, con più gusto, le belle cose della vita.
Una vita lunga, rotolata via veloce fra i mille piccoli inciampi quotidiani, poche grandi occasioni e due persone: il mio Mario e Filippo, nostro figlio. Chissà se lo rivedrò il mio Mario. Non ci ho mai creduto al paradiso o all’inferno, ma adesso che sono qui, sospesa fra il qui e il là, in attesa dell’ultimo saluto, confesso che mi piacerebbe ritrovarlo, anche solo un momento, per finire il discorso lasciato a mezzo quando il cuore gli si è improvvisamente fermato, vent’anni fa.
Quella volta aveva ragione lui. Certo, conoscendomi, se non fosse morto avremo discusso per giorni, come succedeva sempre, prima che uno dei due cedesse. Le piccole baruffe ci divertivano e ci tenevano legati. Era stata una litigata da amici a farci innamorare. C’eravamo detti tante di quelle cattiverie gratuite che entrambi, il giorno dopo, pentiti, ci si era cercati per chiederci scusa. Lui mi aveva cercata a casa mia e dalle mie amiche ed io l’avevo cercato dove lavorava e al bar. Ci trovammo a sera fatta, nella piazzetta con le panchine, dove avevamo litigato. Non dicemmo una parola e non tornammo mai più sul quel litigio. Ci sposammo l’anno seguente e due anni dopo nacque Filippo.
Una vita normale, una famiglia normale, come tante? Non proprio.
Forse mi trovo in questa condizione di non morta del tutto per fare l’ultima cosa che ancora mi resta da fare: chiedere scusa a Maria, ma non so come fare.
È di là, in salotto, Maria. Non vuole vedermi e dice a tutti che vuole ricordarmi com’ero, ma io lo so, lo sento che è arrabbiata con me. Sono tanti, tanti anni che è arrabbiata e delusa da me.
Mi vuole bene, come allora, ma è arrabbiata. È una rabbia testarda la sua. Un sentimento che le ha condizionato la vita fino a rendergliela sterile. Non si sarebbe sposata comunque. Gli uomini non le piacevano e aveva paura quando qualcuno, persino Mario, prima di conoscere me, la avvicinava.
Poi era successo. Era stato per lei, per noi due, che avevamo litigato Mario ed io.
Povera Maria.

Filippo

Devo ricordarmi di mettere nella bara il libro che Rita ha trovato ai piedi del letto e che mamma stava leggendo. So che lo stava leggendo perché fra le pagine c’è ancora il solito segnalibro, sempre lo stesso: la vecchia foto di papà seduto su di una panchina della piazza. Mamma non si separava mai da quella foto e ricordo che un giorno, guardandola, disse piano: quante ne potrebbe raccontare questa panchina… E la stessa foto che, riprodotta, sta sulla tomba di mio padre, ma la riproduzione è stata ingrandita e tagliata. Si vede bene mio padre, ma non la panchina.
Mamma sembra più serena del solito o forse è solo una mia impressione. Trovo sia un po’ troppo austera con quel vestito nero che contrasta con il carattere dolce e solare che ha sempre avuto. Era dolce anche quando io ero un ragazzino impestato e lei si arrabbiava e mi sgridava, tanto che a me scappava da ridere, confuso dal contrasto, e allora lei si arrabbiava di più e finiva sempre che mio padre la abbracciava e senza dire una parola riusciva a calmarla. Mamma smetteva di gridare, aspettava di essersi calmata a dovere e poi partiva con una delle sue discussioni pacate e serie, ma anche punteggiate d’ironia e interminabili.
Dopo che è mancato mio padre non si è mai più arrabbiata. Non ho mai potuto abbracciarla per calmarla. Ho cercato, non riuscendoci sempre, di non darle dei dispiaceri, ma anche quando ne combinavo una delle mie mamma non si arrabbiava. Quella parte di lei, quella che esplodeva, si era nascosta fra i neri, i bianchi e i grigi della foto di mio padre seduto sulla panchina.
In casa c’è una gran folla. Nonostante fossero anni che mamma non usciva da casa e non vedeva quasi nessuno tutti, parenti e amici e un sacco di persone che non avevo mai visto prima, sono venuti. Meno male che mia figlia Martina è qui e con i suoi vent’anni e la sua energia si sta occupando di tutto; io, al contrario, non sono mai stato bravo a trattare con la gente; non ho memoria per le facce e per i nomi e la cosa mi complica i rapporti.
Due minuti fa una signora anziana, quanto mia madre, mi si è avvicinata e raccontandomi di quando lei e mamma erano ragazze e mi ha chiesto se tenevamo ancora la casa sul lago. Le ho risposto che in quella casa, qualche volta, ci va Martina, mamma l’ha lasciata a lei.
Sono contenta, mi ha detto la signora, e ha aggiunto: Solo una donna può capire.
Un po’ sorpreso dalla sua ultima frase non ho trovato le parole, il modo, di chiederle una spiegazione. Qualcuno, arrivando in quel momento, mi ha distratto e un momento dopo la signora si era seduta, un po’ in disparte, in fondo alla sala, e mi è sembrato di vederla piangere piano. Non ho più osato avvicinarmi per non disturbarla. Forse ho capito male le sue parole; che senso ha, altrimenti, una frase come “solo una donna può capire”? Una casa è una casa: bella, brutta, grande o piccola, ma che ci sarà mai da capire? Sì, ho capito male, di sicuro.

Lisetta

Ma guardalo! Come ho fatto a crescere un figliolo così imbranato? Bravo è bravo, per carità. Gran lavoratore, educato e cortese, ma sempre perso nelle sue nuvole, i sui pensieri, il suo lavoro. Se non fosse per Martina, il mio amore di bimba… Filippo non poteva riconoscere Maria. Doveva ancora nascere quando… “ Solo una donna può capire” Maria ha ragione. Ora, guardando Martina che corre per casa dietro a tutto e a tutti, so che lei sa. So che ha trovato la lettera, nel cassetto del comodino della mia vecchia camera, della casa al lago. L’avevo dimenticata quella lettera. Sepolta in fondo al cassetto e in fondo alla memoria. L’ho riletta mille volte e mille volte non ho trovato il coraggio di imbucarla. Martina l’ha letta già qualche anno fa e ora capisco certe sue attenzioni, quelle frasi lasciate a mezzo. Avrebbe voluto che le parlassi di Maria, della lettera, di tanta cose, ma io avevo voluto dimenticare, tacere. Ai miei tempi certe cose non si pensavano nemmeno. Poi, le abitudini e il tempo che correva avanti hanno nascosto il passato, l’hanno accantonato, infilato in fondo a un cassetto.

Rita

Era proprio una bella persona, la signora Lisetta. Tutte le sue piccole rughe sembrano sorridere. Ogni mattina, tornando a casa dopo aver fatto la spesa, poche cose, la trovavo in vestaglia, seduta sulla poltroncina della sala. Mi aspettava per essere aiutata a lavarsi e vestirsi e si scusava sempre per la sua lentezza e il suo equilibrio precario. Sono sicura che avrebbe potuto farcela ancora da sola, ma da quando, qualche anno fa, era scivolata in bagno rischiando di rompersi una gamba o peggio, si era presa paura e si era lasciata convincere da Martina e da suo figlio ad assumermi come badante.
Strana assunzione la mia. Un buon baratto direi: io cercavo un tetto che costasse poco sotto il quale vivere la mia pensione – sì, perché i miei sessanta sono già suonati – e Il sig. Filippo cercava una badante per la madre, più anziana di me di vent’anni, che viveva sola in una casa tropo grande. La prima volta che sono entrata in questa casa Lisetta, come poi sempre, era seduta in poltrona, quella del salotto, vicino alla finestra, e guardandomi da sopra gli occhiali da lettura mi ha chiesto: “per caso lei si chiama Maria?” No, le ho risposto sorpresa. “Allora va bene” aveva detto, volgendo lo sguardo su Martina che mi aveva accompagnato per presentarmi.
Martina non sembrava sorpresa dalla richiesta di sua nonna e mi prese una mano, stringendola brevemente, mentre con il suo sguardo cercava di dirmi di lasciar correre, che magari, poi, mi avrebbe spiegato. Quel nome, Maria, è tornato altre volte, sempre di sfuggita, in altri discorsi, ma una spiegazione non c’è mai stata e io non l’ho mai cercata intuendo che ciò che stava dietro a quel nome era una pagina privata, dolce e dolorosa al tempo stesso. Adesso Maria è seduta lì in salotto. Non l’avevo mai vista, ma l’ho riconosciuta lo stesso o meglio ho capito che era lei. Non saprei spiegarmi come sia possibile. Sono rimasta colpita dalla sua espressione, da come guardava fuori dalla finestra: lo stesso sguardo di Lisetta verso il mondo che sta fuori, non so! È solo un’impressione eppure sono certa che Maria, quella Maria, sia lei.

Martina

Povero papà. Non l’avevo mai visto così confuso. Da quando mia madre se n’è andata mi ha cresciuta da solo. Oggi, per la prima volta in quindici anni, leggo sul suo volto i segni della fatica, dei sacrifici che impone una vita trascorsa a correre dietro a un vulcano di riccioli neri mai stanco. Una bimba e una ragazzetta terremoto sono stata. Nonna ha sempre detto che la mia irrequietudine l’ho ereditata da mia madre.
Sì, papà ha fatto un bel lavoro con me. Certo la nonna gli ha dato una mano e una grossa mano l’ha data anche a me insegnandomi a capire e ad accettare il carattere di mio padre, a capire la sua condizione di padre solo, sprovveduto, casinista, disordinato e abbattuto per essere stato lasciato da mia madre. Chissà cosa cercava mia madre e cosa non ha trovato in papà. È tornata in Argentina, da dove era venuta, la mamma, e di lei nessuno ha saputo più niente.
È troppo tardi ormai per cambiare l’abito alla nonna. Non ho potuto occuparmi di tutto e ho lasciato a Rita e Francesca il compito di vestirla senza dare indicazioni. Spero che nonna mi perdoni. È vero che quel vestito non le si addice, ma era il migliore e poi, nero, a Rita, che è di vecchie tradizioni, è sembrato l’unico adatto alla situazione. Non posso certo fargliene una colpa. Non è così importante, per niente.
Ora di importante c’è una lettera che aspetta da anni di essere recapitata, letta, di fare il suo dovere. Anche per questo nonna mi perdonerà. Me la immagino mentre mi guarda da sopra gli occhiali facendo la faccia buia senza, però, non riuscire a sorridere; quel suo sorriso appena accennato che diceva “non si dicono le bugie, amore mio”. È per amore che la nonna non mi ha mai parlato di Maria e della lettera. È per amore che mi ha lasciato la casa al lago e ha insistito perché mettessi a posto, da sola, le sue vecchie carte sapendo che avrei trovato la lettera, che l’avrei letta e avrei capito. Solo una donna poteva capire. Se fossi stato un maschio avrei messo quella lettera, senza leggerla, insieme con le altre nella grossa scatola di latta, quella bianco panna, con i delicati ghirigori azzurrini e le filastrocche stampate in rosso; quella dei biscotti, e tutto sarebbe finito in soffitta o peggio. Nonna contava sulla mia curiosità. Papà mi ha insegnato a “tirarmi su le braghe da sola”, come dice sempre lui, e la nonna a essere curiosa, a leggere, a chiedere e ad ascoltare gli altri.

Lisetta

Brava la mia Martina. Sento i suoi pensieri e non ho bisogno di perdonarle nulla. Non le ho mai parlato di quel periodo… Non so come definirlo. Ho sempre cercato di nasconderlo, dimenticarlo, ma era bello, cattivo, vero, bugiardo, dolce, pericoloso e impossibile.
Ancora adesso mi confonde. Come spiegare, cosa dire? Avrei dovuto parlarne con Maria? Parlarle e dirle che era stato bello, cattivo, vero, bugiardo, dolce, pericoloso e impossibile? Maria lo sa e lo sapeva già allora, meglio di me.

Francesca

A Lisetta non piaceva la confusione. L’ordine e il silenzio erano quasi malattia e ora la casa è sottosopra, il divano in sala è stato spostato, il tavolinetto e i libri che c’erano sopra sono stati spostati per far spazio alle persone. In cucina ci sono due bicchieri e una tazzina da caffè sul lavello che nessuno ha pensato di lavare e riporre. A parte i molti libri sparsi per casa non c’era mai uno spillo fuori posto, fino a ieri, in questa casa. La mettevo a disagio se venivo a trovarla senza prima avvertirla; doveva avere il tempo di controllare che tutto fosse in ordine e se succedeva che passavo per caso, senza avvertire, si scusava sempre per un disordine inesistente, ma sempre possibile.
Perdonava le mie sorprese solo perché le portavo dei nuovi libri, appena usciti.
Lisetta è stata la miglior cliente della mia libreria cartoleria. Ci siamo conosciute quando Martina era piccola e ha cominciato ad andare a scuola. Le cartelle e i quaderni, le matite e i libri per Martina hanno costruito la nostra amicizia che è poi andata consolidandosi nel tempo grazie ai libri che leggevamo e commentavamo insieme.
Mi mancherà Lisetta. Mi mancherà il suo disordine inesistente.

Lisetta

Francesca ha ragione. Ero una maniaca dell’ordine, ma non sono sempre stata così. Quando ero giovane come Martina non ero ordinata. La malattia dell’ordine delle cose è cresciuta col tempo, dall’abitudine a tenere ordinata, controllata e cristallizzata nelle regole e nella mentalità della società in cui sono vissuta, la mia vita, la mia anima. Quando poi il tempo ha tracciato stabilmente il sentiero dei miei sentimenti, l’ordine è diventato corazza, catena e infine abitudine, fastidio per un oggetto fuori posto.
Soltanto nei libri, nelle storie degli altri, il mio disordine interiore poteva correre libero. Chissà se dove andrò, se esiste un dove, troverò dei libri da leggere.

Maria

Non sono arrabbiata con te, mia cara Lisetta; Non lo sono mai stata.
Martina mi ha portata nella sua camera con una scusa e mi ha dato la tua lettera, dicendomi che così avevi disposto. Non so se crederle, ma non è importante. Ho capito subito che Martina conosceva il contenuto della lettera. Mentre la leggevo, seguiva le mie espressioni e l’ho sorpresa sorridere in anticipo sulle tue parole. Abbiamo pianto insieme, senza dire una parola.
Solo una donna poteva capire.
Ora, mentre ti saluto, un po’ mi vergogno perché mi scappa da ridere. Ti rivedo e ci rivedo nel giardino della casa sul lago, risento le nostre risate, ricordo le parole, spesso insensate, con le quali progettavamo il nostro futuro.
Mario sì, lui l’ho odiato, fino a quando non è nato Filippo. Poi ho capito e mi sono sentita stupida. Perdonami se puoi.

Lisetta

Pace, Maria, pace. Come quando eravamo ragazze, pace.
Ora è tutto in ordine.
Ecco, nemmeno da morta perdo il vizio dell’ordine.
Grazie Martina, grazie a tutti.
Posso andare ora.

Ciao Mario…

5 pensiero su “Lisetta”
  1. Che dire bellissima!
    Ho 48 anni e mentre la leggevo vedevo me, spero in un lontano futuro.
    Ciao

  2. Un racconto ricco di sentimenti, bello e scorrevole e a me, che penso spesso all’adilà, è piaciuto molto come hai curato le interpretazioni dei personaggi in maniera molto vicina a come potrebbe essere la realtà.
    La vita non è fatta solo di amori a senso unico o di grandi passioni condivise, ci sono storie intrecciate, verità non dette, segreti e alla fine tornano tutte a galla, come si affaccia la voglia di raccontarle, magari anche dentro una lettera.
    5st.
    sandra

  3. Ti ho lasciato le mie 5 stelle per questo bel racconto.
    Io amo i testi in prosa ad ampio respiro in cui i personaggi sono ben delineati e la narrazione scorre fluida.
    Credo che il racconto breve, in cui l’azione viene descritta più velocemente e i personaggi, ovviamente, delineati in modo più approssimativo, riesca a catturare l’attenzione dei più.
    Quando, però, situazioni, descrizioni e pensieri sanno avvincere il lettore, nel racconto più lungo si vede la capacità di chi sa narrare e tu, a mio modesto parere, hai questa capacità.
    Bravo.
    anna

  4. Bel lavoro, una storia dolce e velata di mistero, una protagonista a cui ci si affeziona subito. La scrittura è accurata e l’intreccio scorre davvero bene. L’alternarsi dei personaggi lo rende ancora più piacevole. Grazie per questi minuti piacevoli che ci hai regalato.

  5. Grazie a tutte voi e con tutte voi mi scuso per la brevità delle mie risposte e dei miei commenti; al contrario di quando scrivo dei racconti quando è la realtà a investirmi le parole mi si negano, per timizza, immagino.

    Ciao.

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