Come al solito pioveva e pioveva che Dio la mandava. Non aveva voglia di uscire nemmeno per chiedere l’ennesima sigaretta ai ragazzi del campetto da basket adiacente la cancellata dell’ospedale. Li vedeva da fuori. Pure sotto l’acqua giocavano. Giomo se ne stava mogio mogio a rileggere “Memorie dal sottosuolo”. La stanza, forse un po’ troppo grande per ospitare appena due letti, era l’unico bianco orizzonte della maggior parte della giornata. Ormai da quindici giorni nessuno gli aveva più portato un libro. Genitori in vacanza con fratelli minori. Era giusto così. Quindici giorni appena s’erano concessi dopo mesi a tenergli compagnia in ospedale. La mattina una telefonata di circa minuti dieci sul cellulare: il papà. La sera una telefonata di circa minuti venti sul cellulare: la mamma. E sarebbero tornati di lì a poco. Ma a Giomo non mancavano più di tanto. Quattro mesi d’ospedale senza sapere da quale malattia fosse affetto lo avevano proiettato in una sorta di atarassia animalesca, quasi fosse una foca bastonata che, rassegnata alla propria fine, accettasse gli ultimi colpi di mazza senza più reagire o tentar la fuga. Eppure un atteggiamento simile non era del tutto spiegabile. E’ vero, i medici non sapevano raccapezzarsi del suo stato, ma i sintomi non erano poi così gravi. Tutte le diagnosi più perniciose erano state scartate, non si trattava di aneurismi di sorta, né di malattie psicologiche, né di tumori o leucemie. 

Tutto era cominciato una mattina in auto, quando Giomo, accompagnando i propri fratelli alla scuola elementare prima di raggiungere l’università, s’era tirato un sonoro ceffone in faccia. I fratelli avevano pensato a un gesto di follia o ad uno scherzo assai poco divertente. E quello sguardo carico di stupore che Giomo rivolse alla propria mano, non fece che confermare la convinzione che si trattasse proprio di una stupida celia. Lasciati i fanciulli, si era diretto verso l’ateneo ripensando continuamente, fino al calar della sera, all’episodio. Per qualche settimana non avvenne più nulla, finché una sera, a cena con ospiti in casa, s’era schiaffeggiato con foga di fronte al dessert. Fra lo sbigottimento generale non seppe rispondere nulla agli sguardi inquisitori che lo fissavano se non riferire quanto accaduto in precedenza. Il padre non gli credette reputando anch’egli che si trattasse di una stupida bizzarria, ma poiché a ben vedere quel figliolo mai gli aveva dato serie preoccupazioni, lasciò perdere la polemica dinanzi agli invitati e cambiò con sorprendente rapidità l’argomento. Nei giorni che seguirono la scena però gli episodi si moltiplicarono esponenzialmente tanto che agli iniziali rimproveri per quell’inspiegabile vizio si sostituirono le preoccupazioni. “Nostro figlio è uscito di senno” si ripetevano i genitori puntualemente prima di coricarsi.

E fra una visita medica e l’altra, Giomo era finito in osservazione presso l’ospedale della grande città in cui abitava.

Il giorno in cui pioveva (e pioveva che Dio la mandava solo su quella città) seguiva un’intera settimana di temporalesche precipitazioni. Le nubi dense, trapassate da un sole affaticato, proiettavano una luce verdastra attraverso gli ampi finestroni. Di tanto in tanto un lampo e un tuono prorompevano nell’uggia di quell’ambiente triste. Soli eventi a turbare le letargiche coscienze dei degenti. Il compagno di letto di Giomo se n’era uscito dall’ospedale il giorno prima, lasciando il suo giaciglio vuoto e privo di coperte. E fu proprio mentre fissava il bianco materasso il momento in cui Giomo conobbe il dottor Saltacuccia. In quel mentre, difatti, s’introdusse nella stanza un vecchio barbogio dagli occhialini dorati e rotondi e dalla folta barba bianca. Una di quelle figure che si associano volentieri agli scienziati folli. E di tali insane inclinazioni si sarebbe tacciato, per l’aspetto, anche il Saltacuccia, se non fosse stato accompagnato da due primari dai quali promanava un evidente deferenza nei confronti del vecchio. “Dunque ragazzo mio” cominciò il vegliardo fissando Giomo in volto “tu hai il vizio di prenderti a schiaffi?”. “Sì” rispose il ragazzo per nulla inibito. “E da quanto tempo?” “Circa sei mesi.” “Sei mesi?” “Sei mesi”. Saltacuccia aggrottò la fronte. “Uhm” moromorò pensieroso mentre tastava il polso del ragazzo. “E ti schiaffeggi sempre con una mano o con tutt’e due?” “Con una, ma questo non gliel’han detto?” “Che ti interessa se me l’han detto o no?”. Saltacuccia continuava la visita. Fece sedere il ragazzo e gli auscultò per bene la schiena, poi lo fece inarcare sul letto fissando i muscoli dorsali. I medici che lo avevano accompagnato sembravano del tutto spaesati, benché fingessero di darsi un tono per non far la figura degli sprovveduti. Infine il vecchio esaminò le spalle del ragazzo trovando su entrambe dei piccolissimi ematomi rossastri. “Queste macchie le avevate viste?” “No” “No” risposero quasi contemporaneamente i primari. “Molto male! Questo ragazzo sta per partorire!”. A quelle parole Giomo ebbe un sussulto e s’accorse che anche i due medici erano di colpo trasaliti. “Partorire?” ebbe a domandare il più anziano dei dottori. “Partorire, sì” rispose Saltacuccia “ho visto un caso simile solo in Russia, durante la guerra. Si trattava di un sottotenente. All’epoca ero un giovane medico militare appena laureato, ma ebbi la fortuna di servire sotto le armi col dottor Talami, il famoso studioso. Il soldato era chiamato sottotenente ‘schiaffoni’ a causa della stessa malattia di questo ragazzo. Accompagnai il dottor Talami nell’ospedale da campo. Il sottotenente s’era dato talmente tanti schiaffi da rendersi la faccia come un pallone e ardeva dalla febbre. Fu lì che Talamoni mi spiegò che stava per partorire la ‘Tromba a schiaffi'”. “La tromba a che?” interruppe Giomo. “La Tromba a schiaffi. Avete letto Paracelso?” domandò Saltacuccia ai due medici. Ma non ebbe alcuna risposta se non quella di due sguardi allibiti. “Male, molto male, è uno dei pochissimi che ha trattato di questo morbo!” “Restammo ancora qualche minuto nell’ospedale” riprese il vecchio “il soldato fece uscire dalla schiena una tromba d’ottone, con due alette scolpite di fianco al beccuccio. La tromba cadde a terra e il soldato, ripresosi del tutto si scagliò fuori della tenda e andò faccia a faccia contro al nemico battendosi da eroe. Morì per i numerosi proiettili ricevuti, ma uccise così tanti russi che il nostro battaglione, incoraggiato si scagliò all’attacco riuscendo a crearsi una breccia per la ritirata. Eravamo infatti da giorni chiusi in una tremenda sacca. Ma la cosa più sorprendente fu che non trovammo cicatrici sulla schiena del cadavere”. Saltacuccia si fermò un istante a fissare nel vuoto. “La tromba, una volta partorita, infonde nel proprio genitore un coraggio da leoni! E spinge a compiere imprese eroiche!”. “Eh eh eh dottore, ma che s’inventa?” disse ridendo sempre il più anziano dei primari “Ma le sembra possibile? Andiamo, è una storia assurda, lei sta scherzando evidentemente”. “Mai stato più serio” replicò severamente lo scienziato. “E queste trombe?” lo incalzava il medico “a parte il fatto che dovrebbero avere un valore eccezionale” “Lo hanno” interruppe Saltacuccia “lo hanno eccome! Fu una di queste trombe che venne suonata dall’orchestra che accompagnò l’affondamento del Titanic, un’altra venne suonata durante la battaglia del Kosovo. Numerosi collezionisti danno la vita per averne una…”. Mentre il vecchio medico si affaticava a raccontare la storia della Tromba a schiaffi, Giomo cominciò a schiaffeggiarsi sempre più velocemente, sempre con più furia. I medici cercarono di tenerlo fermo. Quando improvvisamente un forte rumore metallico risuonò per tutto il corridoio dell’ospedale. I quattro che popolavano la stanza s’erano fermati in preda allo stupore a rimirare una tromba d’ottone con due alette scolpite di fianco al beccuccio. Era la Tromba a schiaffi! Giomo era stremato, pallido, emaciato disteso sul suo letto. Le lenzuola impregnate di sudore. Poi di colpo un grido. Il ragazzo s’alzò con una carica impressionante e con un altrettanto impressionante balzo uscì dalla stanza indossando il solo pigiama. Ululando come un lupo mannaro si diresse correndo verso l’uscita dell’ospedale. Sbaragliava ogni paramedico, infermiere, dottore, tecnico di laboratorio che tentasse di fermarlo. In breve lo persero nel traffico cittadino. Ancora non sappiamo se abbia o meno compiuto qualche gesto eroico o se mai potrà compierne. Intanto aspettiamo. 

 

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