Quella che vado a narrare per voi è una storia di un immenso campo di grano disteso su piccoli colli fino a perdersi nell’infinito che dorato dal sole ne rifletteva i raggi e danzava con il vento che tra le foglie s’insinuava e le dava respiro.

Ero ancora una ragazzina giocosa quando già mi perdevo nei campi correndo con i miei fratelli mentre i grandi mietevano quell’oro spuntato da terra. Aprivo le braccia e volavo in mezzo al prato e mi lasciavo inseguire dal tempo che per quanto passasse veloce io riuscivo ancora a schivare e a non sentirlo addosso. I giorni passavano leggeri e la libertà di volare calpestando la terra, l’immaginare di non avere confini, il non pensare al futuro mi rendeva felice nell’infelicità di una vita contadina. Non che fosse un inferno vivere in una piccola stanza con sei fratelli maschi ma erano le malattie che infestavano il paese a metterci paura ed a farci patire ancora di più la fame.

Tuttavia, niente riusciva a rovinarci le domeniche, quando tutti eravamo allo stesso tavolo, avevamo tutti lo stesso sorriso e la voglia di ringraziare un Dio che ancora non mi era stato presentato. Tutti si burlavano, si raccontavano vecchi fatti che vengono alla luce accanto a qualche bicchiere di vino in più e si accompagnavano a fragorose risate che avevano quella voglia dentro di sé di dimenticare il presente difficile. Si aspettava il pranzo così a casa mia.

Quei giochi, quelle risate, quei fatti erano però da ormai troppo tempo sempre gli stessi e non erano sufficienti per una piccola donna che cresceva e che tutti trattavano ancora come una bambina.

Mi alzai una domenica dal tavolo mentre i miei fratelli raccontavano di quando caddi a testa in giù nella tinozza perché volevo l’acqua. Mente tutti ridevano di me io mi diressi in cucina dove la mia povera nonna, la cui anima trovi pace in eterno, con grande forza impastava su un grande tavolaccio.

<<Vuoi imparare come si fa il pane?>> si rivolse a me senza guardarmi ma sorridendo come per prendersi gioco di me. Anche lei, pensai.

<<Tu credi non ne sia capace?>> Mi alzai le maniche della mia camicetta bianca domenicale e impastai con forza accanto alla mia adorata curatrice.

Mia nonna diceva sempre che fare il pane è come fare l’amore. Ci vogliono gli ingredienti giusti e solo quelli, ci vuole il tempo per lievitare e ci vuole una gran forza. Dopo tutto questo discorso, immancabile era l’incoraggiamento finale, perché secondo lei per me era “tempo di trovar marito”.

<<I giovincelli mica aspettano! Io sposai tuo nonno giusto un mese prima che partisse per il militare…>>

Così passarono altri mesi, ascoltando e riascoltando come mia nonna sposò mio nonno e di come, a furia di far pane e dolci, morì di diabete.

Non potevo non amare quei gesti, quei visi, quella miseria perché essi erano la mia vita e non l’avrei cambiata per nessun’altra esistenza al mondo.

A me poco importava di non andare a scuola, di non portare quei bei abiti lussuosi di dame d’altri mondi. Io sapevo vivere ed esser felice davanti ad un pezzo di pane intinto nel sugo di pomodoro che mia madre cucinava per ore e il profumo si udiva persino sul sagrato della chiesetta del paese tanto che la benedizione di casa nostra era assicurata dal curato pur senza andare a messa. Ma col tempo anche ciò che si porta nel cuore cambia, così come il mosto in vino e la farina in pane.

Le mie giornate erano sempre le stesse ma il tempo che prima o poi dovetti affrontar di petto trasformò lentamente le mie corse nei campi in ore pesanti di lavoro ricurva per terra a raccogliere i doni di una terra bruciata dal sole. I giochi divennero pesanti panni bianchi da lavare nel fiume e da riportare a casa asciutti prima che il sole sparisse dietro i monti e lasciasse spazio a notti desolate illuminate dalle lumiere ad olio.

Il mondo cambia assieme al tempo e alle persone e la vita si espande e si arricchisce di dolore. Grandissimo fu quello della morte della mia cara nonna che se ne andò con il suo cruccio più grande che era quello di vedermi accasata e con tanti figli maschi e forti da poter aiutare la bottega.

Mi sembrava di dover vivere per questo solo ed unico obiettivo: essere madre e moglie di una famiglia numerosa. Ma io non amavo i progetti di gente che poco avevano a che fare con me e non capivo perché fossero gli altri a dover decidere su un futuro che per quanto potesse essere roseo non vedeva molte strade possibili.

Forse per tutte queste apprensioni ingiustificate, per quegli sguardi che mi erano sempre addosso, per quei commenti che mi definivano “maschiaccio”, forse per tutto questo io mi costruivo un muro che mi separava dalla realtà. Forse per questo ho iniziato ad odiare la mia famiglia, la gente del mio paese, poi odiavo questa terra arida, questo sole cocente, e poi odiavo anche me.

Mi odiavo perché non ero in grado di odiare tutti fino a potermene staccare definitivamente, mi odiavo ogni giorno perché, nonostante tutto, niente cambiava, perché non era vero che mi odiavo, o forse non mi odiavo abbastanza. A volte però ero tanto felice di quello sguardo fiero e orgoglioso che mio padre mi lasciò in eredità. Lasciò solo quello a me che lo trattavo sempre con pessimi modi, che lo ringraziavo sempre per avermi fatta col cuore di pietra dopo avergli rovesciato addosso la zuppa bollente che non volevo mangiare. Non molto altro a dire il vero aveva da lasciare. Si portò tutto dietro, nelle tasche bucate che lo accompagnano chissà tra quale girone di purgatorio. Si è portato dietro anche le tante legnate che mamma gli dava quando veniva sbronzo e il tanfo d’alcol dei vestiti se ne andava solo dopo tre giorni di ammollo con sapone e cenere.

Vi starete divertendo a sentire la storia di questa famiglia poco comune. Eppure questa era la vita, questo era il nostro scorrere del tempo. Ma possiamo affermare e gridarlo ben forte che le idee, giudicatene voi la qualità, non ci mancavano mai. A mia madre, povera donna esausta, venne quella di portarmi un giorno a messa. Evento assai strano considerando il fatto che quel giorno non era né la mattina di Natale, né di Pasqua, né grazie a Iddio quel giorno morì nessuno. No, mia madre aveva altro per la testa.

Si chiuse nella sagrestia per mezz’ora con il nostro padre reverendissimo e mi lasciò con le anziane, dedite oramai a preghiere in chiesa e maldicenze in piazza, a recitare il rosario. Giunsero due monache che si avvicinarono e iniziarono a parlarmi di segni, di voti e chiamate dal cielo. Io il cielo e tutte le stelle del firmamento le potei ammirare quella sera stessa quando risposi a mio padre, allora ancora vivo e forte, che in convento non ci volevo andare, piuttosto avrei fatto la donna dal facile costume devota alle chiamate di nobili signori di potere che sapevano anche ricompensarmi con santi bigliettoni di valore. Che il denaro non è tutto posso comprenderlo solo adesso, ma non allora quando un tozzo di pane andava diviso dieci e più parti, quando solo se mi alzavo prima dell’alba per andar a raccogliere frutta e verdura riuscivo ad avere una cena calda e sostanziosa, quando per un paio di scarpe nuove bisognava aspettare Natale.

Io crescevo ed avevo oltre alle disgrazie che sin qui ho menzionato anche quella di essere bella e dall’acuta intelligenza. Che inferno fu l’amore! Tanti furono i litigi quanto i pretendenti e tanti furono i pretendenti quanti furono i miei capricci. Nessuno mi garbava. E come se non bastasse il tutto appariva alla mia famiglia un grande dispetto fatto per un motivo imprecisato. Eppure una ragione v’era; amavo essere libera. 

Mi mancavano quelle corse tra i fili di grano, mi mancava quell’aria di puledra senza regole e stare dentro un abito stretto cucito da donne che credevano di saper essere donne mi dava un nervoso fuori del normale.

Che brutta cosa nascere donna quando donna non ci si sente. Volevo tenere il mondo in una mano, volevo crescere ed essere forte; purtroppo l’avere attorno sei uomini che seguivano ed osservavano ogni piccolo movimento non mi aiutava. Senza un padre, senza nonni e con una mamma che andava perdendo il senno scelsi quell’unica possibile via e trovai lavoro presso il forno del paese.

Cominciai il mattino di Santa Lucia e prima dell’alba l’impasto era già fragrante pane pronto per il grande pranzo in onore di colei che avrebbe dovuto portare doni, caramelle e dolci. A casa mia purtroppo non portò nemmeno carbone giacché ci pensò l’ultimogenito di una squadriglia allo sbaraglio a dar fuoco ai nostri materassi, compresi lenzuola, cuscini ed armadio.

Anche se agli occhi vostri può sembrar che nulla mi piacesse devo, invece, dirvi che non era così. Qualcosa mi piaceva, mi attirava, mi faceva sentire donna. Io, fra tutte le cose, amavo essere inseguita, spiata, corteggiata e sentirmi sempre al centro delle attenzioni. Qualsiasi attenzioni.

Beh devo ammettere, e me ne vanto pure, che da quando arrivai al forno la cassa sbrigava il suo lavoro sempre più in fretta, sempre più spesso. Apri, incassa e chiudi quasi in continuazione. E poi iniziarono a cambiare anche le abitudini, si cari lettori, oramai il pane lo compravano solo gli uomini in quel paese; giovanotti, uomini di un certo peso, medici e uomini che nonostante il tremolìo e la schiena dolorante carica di anni di lavoro ritornavano sorridenti senza denti ed arzilli al mio cospetto. Anche la moglie del fornaio oramai non si allontanava più dalla bottega e con le comari della piazza se ne andava dicendo <<Non sia mai un giorno dovessimo sfornare qualcosa di più morbido del pane, c’è da tenere gli occhi aperti!>> e le beceri comari annuendo concludevano <<E le mani a posto>> riferendosi al mio casto, devo ammetterlo, datore di lavoro.

Intanto la casa della mia grande famiglia vedeva andare via i miei fratelli i quali molti si accasarono, altri rendevano il loro dovere al Paese, altri trovarono lavoro altrove, lontano, così lontano che le notizie a riguardo del mio comportamento in città gli arrivavano appena. Io ero sempre più libera e l’ultimo laccio al piede rimase mia madre che intanto, giusto per renderci la vita migliore, aveva del tutto perso la ragione e con essa l’udito e la memoria.

Rimasi dunque l’unica donna di casa a dover badare a tutto. Un’altra cosa che caratterizzava la mia vita era il fatto che io non avevo amiche, non avevo confidenti. Capite che mia madre non poteva mai esserlo, altrimenti più che confidenze sarebbero state comizi elettorali. Dunque se non lavoravo passavo il mio tempo a ripulire la nostra casa, se non ero occupata a lavar lenzuola dovevo occuparmi di mia madre e dei dottori che la curavano, e se non avevo null’altro da fare rimanevo sola a pensare. Mi tornavano sempre in mente strani pensieri di progetti futuri. Immaginavo tante cose, molte delle quali indicibili ma troppi di questi, purtroppo, divennero realtà.

Continuavo ad impastare forte la pasta mentre il caldo di giugno arrivava già di primo mattino. La gente ne avvertiva il fastidio e le gocce di sudore solleticavano il collo e la fronte stuzzicando il nervoso di tutti. Il pane lievitava tra le dita, gli uomini chiedevano di essere serviti, il mio capo necessitava di aiuto, il forno ardeva e ci essiccava vivi ed io iniziavo a dare i primi segni di stanchezza. Guardai in altro e il grigiore del tetto fu l’ultima cosa che vidi prima di svenire e cadere per terra. Aprì gli occhi mentre una dolce signora attempata mi dava sulle gote fruscianti e dolorosi colpetti. Dietro la gentildonna si affacciò quello che mi parve essere un angelo venutomi in soccorso. Si fece largo con la scusa d’esser dottore e mi prese delicatamente il polso. Con quel dolce tocco e dentro quei giovani occhi conobbi per la prima volta l’amore. Ma gli angeli non appartengono a questa terra, credetemi. Lui era il figlio del dottore, l’unico, del nostro paese. Apprese presto la professione e dal padre apprese anche come far innamorare una donna, come portarsela a letto e come il mattino dopo sparire sembrando il volo di un’ape su un fiore più bello. In me non trovò la solita rosa rossa che aspettava d’esser annusata, usata e lasciata appassire. Lui stesso lo ripeteva ogni volta: <<Il tuo profumo è peggio della morfina>>.

Credeva di essere il diavolo tentatore ed invece si trovò ad essere incatenato dal suo stesso gioco. Dimenticavamo tutto quando eravamo soli dentro la sua macchina e dai prati immensi guardavamo le luci del paese accendersi una dopo l’altra mentre si faceva buio. Tra il verde e i fiori di quei prati giocammo tutti i sabati pomeriggio di quella calda estate.

Mia madre, che pazza era ma tonta no, si accorse subito di quel tempo trascorso fuori casa chissà dove e la sua inquisizione da vecchio commissario pronto alla pensione era ormai un rito abituale.

Gli dicevo ridendo di essere stata ai campi ma non se la bevve mai questa menzogna: <<Son finite le primizie e tu ancora non hai portato niente a casa, dev’essere un duro lavoro il tuo che torni sempre felice e raggiante. Ai miei tempi si lavorava sodo!>> Ed io persa a guardare fuori dalla finestra le rispondevo. <<Anche io faccio del mio meglio!>>. La sfacciataggine non mi mancò mai.

I tempi del curare lo spirito tra i papaveri e le braccia del dottore finirono con l’arrivo del gelo che ghiacciò tutto compreso cuore e ragione. Si accasò tre mesi dopo con la figlia del farmacista. Epilogo logico e scontato mi venne di pensare, ed io, che avevo solo l’arte di impastar farina, rimasi al forno a vendere pani e focacce.

Beh, ho da ammettere che sola comunque non rimasi mai. Mi restava pur sempre mia madre e le sue sempre più frequenti fissazioni. In quel periodo l’unica che aveva era quella di farmi conoscere il figlio della Signora Pina, nostra vicina disprezzante del pettegolezzo ed amante delle arti e di suo figlio che li praticava.

Quale peccato mortale avessi commesso per subirmi ogni pomeriggio i discorsi di donne fuori di testa nel prendere il tè con il giovanotto sedutomi difronte mentre organizzavano cene e passeggiate, non ebbi mai modo di saperlo.

Da quanto mi era concesso conoscere, però, ho sempre visto e creduto che la sapienza non s’accostava bene con la bellezza. Naso goffo su cui poggiavano due enormi cerchi grandi quanto quelli di una graziella, aria da bambino capriccioso e modo di fare antipatico ed egoista. Dimenticavo, viziato.

La nostra prima passeggiata fu un già preannunciato disastro, privo di dialogo, privo di vicinanza, privo di voglia di conoscersi. Più che altro l’ho fatto per far tacere quella combina guai che accudivo a casa. Tutto finì quel pomeriggio sulla panchina di una piazza deserta quando mi lesse la sua poesia scritta per me e dopo che mi mostrò lo spartito di una musica anch’essa composta per me e quando alla fine compresi che Luigino, se errore non faccio il nome era questo, amava se stesso ed il suo sapere più di ogni altra cosa.

Continuavo a crescere ad essere donna mentre nel paese tutto cambiava. Il panificio dove lavorai per anni alla fine chiuse i battenti ed io che non avevo alcuna intenzione di restarmene a casa con la strizzacervelli che tuttavia amavo, trovai lavoro in un banco di frutta e verdura posto davanti al municipio.

Che ve lo racconto a fare! Anche il sindaco adorava i broccoli, le arance e le fresche fragole rosse. 

La fugace passione consumata in comune durò pochi istanti. Il gran signore, primo cittadino, mi offrì poltrone, incarichi e ricompense. I conti, però, li aveva fatti molto male. Mi scambiò, come suo solito, per una delle sue tante segretarie. Tutto era per lui un piano che si ripeteva. E non era mica quello regolatore.

Quando di tutto quel dar amore e quel darlo alle persone sbagliate ne ebbi fatta indigestione cominciai a capire che avrei dovuto trovarmi un uomo che fosse mio e che lo fosse per sempre.

Non pensate affatto che siccome fossero altri tempi era l’uomo che conquistava la donna, questa è solo una credenza comune, un mito, la leggenda che si racconta perché si crede che tutto sia sempre stato così. No, la donna si fa corteggiare solo dopo aver scelto da chi. Questo è il trucchetto che pochi sanno; è lei che sceglie.

Ma come si può amare seguendo un piano prefissato? Dopo fiori, baci segreti, sguardi e sorrisi, dopo sogni e pensieri costanti, dopo aver amato un’idea che non tocchi ancora, dopo aver perso la testa, dopo aver volato nell’immaginazione, dopo aver consumato tutto con la sola fantasia, cosa resta da amare?

Quella povera donna di mia madre nella sua sregolatezza mi diceva sempre:

<<L’amore è solo uno ed è bello per questo!>>

Io ridendo convinta delle mie idee a riguardo le rispondevo:

<<Mamma, l’amore è bello quand’è ogni giorno>>.

Ma gli anni continuavano a passare e nell’ultimo della mia ventina successe quello che in fondo tutto il paese sperava.

Dentro casa mia i mobili erano tutti al centro della stanza coperti da teli, giornali e lenzuola vecchie. I letti erano coperti anch’essi e il disordine regnava ovunque. Le finestre erano aperte e da una di quelle mi affacciai per vedere i due imbianchini che avrebbero dovuto tinteggiare i muri di casa nostra. Un vecchietto salì le scale ed entrato dall’uscio iniziò a scrutare luci, ombre, colori e tonalità. Dietro di lui lo seguiva un giovane dai capelli neri e ricci, dalle braccia forti e non troppo lunghe, dal corpo massiccio e alto. Era un po’ stempiato ma il cappello che portava nascondeva l’avanzare della calvizia. A questi, che iniziava ad apprendere il mestiere, non interessavano tuttavia i colori, le ombre e le luci. Mi trovò nel mio salone e non mi lasciò con lo sguardo finché, dopo che mia madre ebbe spiegato tutto al mastro imbianchino, si rivolse al suo garzone dicendogli:

<<Debbono venire bianchi e lucenti, i muri giovanotto, i muri. E giacché tutto è già bello e coperto non vi scomodate a spogliare nulla, né con le mani né con gli occhi>>.

Rossa dalla vergogna mi rifugiai altrove.

Stanza dopo stanza tutti per una giornata intera lavorammo sodo e mentre l’ambiente risplendeva e tornava alla lucentezza di un tempo, io ammiravo solo con la coda dell’occhio quell’apprendista affascinante. Il giovanotto senza un nome non disdegnava e ricambiava quando poteva, ossia quando mammá badava ad altro ed il mastro era occupato a tinteggiare i soffitti.

Era quasi buio e i due operai avevano finito il loro lavoro. Mentre il vecchio imbianchino portava giù gli arnesi, io ed il giovane garzone avemmo solo il tempo di guardarci negli occhi e mentre goccioline di vernice ancora fresca cadevano dal tetto su di noi, mi prese la mano e la sfiorò con la sua bocca chinandosi. Si voltò e mi lasciò lì sola con l’odore del nuovo bianco dei muri e dell’anima. Mi resi conto quel giorno di non aver mai amato nessuno, di non aver mai ricevuto amore. Capì che ancora non sapevo amare.

L’imbianchino mi insegnò come rispettare i sentimenti, come sentire ciò che voglio, come essere leale, sincera e fedele. Mi ricordò quello che mi diceva mia nonna. L’amore è come il pane. Anche mia madre era felice di quel suo giovane genero. Era talmente entusiasta che alla Signora Pina, la nostra vicina, quando le chiedeva come mai l’imbianchino tornasse così spesso le rispondeva:

<< L’invidia della gente, cara mia, è così forte che i muri si fanno neri ogni due giorni>>.

La nostra vita proseguiva serenamente ma restava comunque un’esistenza di sacrifici. Ma tutti quei sacrifici altro non facevano che unirci di più. Con i risparmi del suo duro lavoro, con l’aiuto della mia adorata madre e con le mie forze riuscimmo ad aprire di nuovo il forno nel nostro paese. Nuovamente le strade ricominciarono all’alba a profumare di fragrante pane e finalmente tutti vedevano in me la donna che volevano vedere da tempo ma che io, tutto sommato, non sono mai stata. Non ero come le altre. Io ero speciale.

Io avevo capito che l’amore non è fra tanti, l’amore non è di tutti. No, non tutti amano, non tutti sognano, non tutti vivono. Io sogno ogni giorno, spero ogni giorno, lavoro ogni giorno. Io ogni giorno torno a correre tra quei fili d’oro, ci torno perché non ho mai perso la strada, non ho mai perso la fantasia e la forza. Io vivo ogni giorno perché amo ogni giorno.

14 pensiero su “L’Amore Quotidiano”
  1. Un apologo dell’Amore con l’A maiuscola in una storia leggera e magica, narrata al femminile, come uno studio dell’animo della donna che ricerca dentro e fuori di sè parametri di riferimento in una società che non c’è più.
    L’Amore e il pane: essenziali e vitali.
    Non si può sbagliare.
    Un bel racconto.
    Ciao
    anna

    5 st.

  2. Bellissimo racconto di una realtà contadina e di Vita.
    L’apprezzamento al sacrificio alla Vita, all’Amore per tutto ciò che si ha intorno e che si vive nel quotidiano.
    Questo “pane”, senza nulla togliere all’oggi, andrebbe fatto leggere ai giovani rampolli di oggi, dove, non sempre ed ovunque, ma spesso, le avversità e i sacrifici del quotidiano sono polvere da togliere solo con l’isteria.
    Ciao. 5 st.
    Sandra

  3. Come sempre non mi resta che ringraziarvi.
    Nello scrivere questo racconto ho immaginato di trovarmi di fronte una signora avanti con gli anni che aveva nei suoi occhi la voglia di raccontarsi. Oltre alla storia che lei stessa ha vissuto mi piaceva poter trasmettere attraverso il racconto le emozioni di questa donna. Esattamente come quando ci si siede accanto ad una nonna, ad una zia, ad un’anziana signora che con simpatia ripercorre la sua vita e racconta quegli aneddoti che rimarranno impressi per sempre in colui che l’ascolta. Ho voluto anche scrivere questo testo per poter dire che il vissuto di ogni essere umano va rispettato e lo si fa rispettando quell’essere umano stesso, magari iniziando a rendersi conto di come esso sia una risorsa e non solo un “peso inutile”. Mi riferisco ovviamente alle persone anziane, sempre più emargine ed abbandonate a se stesse. Fin quando avremo donne ed uomini capaci di raccontarci l’umile passato fatto di sentimenti semplici e genuini possiamo continuare a “cantare” l’amore.
    Raf

  4. Uno dei piaceri della vita è quello di ascoltare storie. Questa è una di quelle rare occasioni in cui ti senti di nuovo bambino e aspetti con la bocca spalancata di sapere come và a finire.
    Ho ritrovato l’atmosfera di mia nonna che raccontava e noi piccoli in cercho ad ascoltare.
    Molto piacevole, il racconto è ben scritto e come dicevo coinvolgente.
    5S Luxia

  5. Bellissimo racconto, semplice e diretto, veramente molto bello. Ciao da Betta

  6. Complimenti,
    bel racconto ben impostato, scorrevole, piacevole e diretto. Mi ricorda quando sedevo, vicino al grande camino dei miei nonni, e ascolatavo estasiato i racconti del nonno ancora oggi, malgrado i tanti anni trascorsi, presenti in me come insegnamento di vita quotidiana. Brava e ancora complimenti
    5 stelle
    Emanuele

  7. E’ un bellissimo racconto… che mi ricorda un po’ com’ero io prima di incontrare mio marito… fuggiasca… ribelle… davvero bello!
    5 S

  8. Molto molto bello…. mi ci sono immersa totalmente, complimenti!

  9. L’hai scritto con la penna o con il cuore?
    Che domanda, con il cuore! E si sente …
    Pare di vederti, bambina e donna, bella, un po’ perduta e poi ritrovata tra i capelli ricci di un giovane imbianchino.
    Ma è una storia vera?
    Ciao Aurora

  10. Grazie Aurora.
    No non è una storia vera. Fantasia e qualche richiamo a vecchie storie.
    Sai, ho scritto questo racconto più di un anno fa e poi quando l’ho riletto io stesso a pochi mesi di distanza mi sono detto: “sarà il destino”.
    Mi sono ritrovato infatti, grazie ad un progetto di cui faccio parte, ad ascoltare per tutta l’estate tantissime storie vere simili a questa che avevo scritto e mi sono divertito tanto ad ascoltarle. Qualcuna mi ha anche dato lo spunto per un nuovo racconto.
    Grazie ancora.
    Raf

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