“Ahahaha! Allora io gli tiro una sberla e lui scappa piangendo, lasciando sul pavimento della mia macelleria una copiosa scia di sangue”. “Ehh…ehm andiamo un po’ di fretta. Mi darebbe anche un po’ di vitellone?…Uhm ma come mai è verde?”. “Ma no signora, è un effetto delle luci. Questa è carne di prima qualità, scelta per voi”.
Ma la solita, scusate il termine, puttanata del macellaio Gilberto non fece presa sulla signora Gina, che era sì una gran rompimaroni, ma non si faceva abbindolare facilmente.
“Ehm sa che c’è? C’ho ripensato và. Niente vitellone”. “Ma è di prima qualità!” insistette il macellaio. “Sì ma per stasera ho cambiato idea. Minestrone” cercò di tagliare corto Gina, alchè la figlia Mariolina esclamò “Ma mamma sai che non mi piac…” ma non finì la frase che la madre le diede un poco amorevole quanto opportuno strattone come per comunicarle “E sta zitta PICCOLA ROMPICOGLIONI!”.
Si congedarono. All’uscita Gina era sollevata. Era una bella donna di non più di quarant’anni. Fisico snello, occhi folgoranti. Sua figlia Mariolina, che era nata dal suo terzo matrimonio con un noto tossicodipendente della zona all’epoca era una ragazzina di quattordici anni, un po’ brufolosa e tarchiatella, ma assai affabile e di buona cultura: aveva sorprendentemente già letto per intero ‘Il mondo come volontà e rappresentazione’ di Schopenhauer.
Ad un tratto, mentre facevano ritorno a casa, chiese alla madre: “Mamma ma il signor Gilberto è un bravo signore? Come lo collocheresti nell’ascesi…ehm niente” (ogni tanto la ragazza involontariamente inseriva nelle frasi termini tipici del suo filosofo di riferimento). “Ma certo!” rispose la madre “Non farebbe male ad una mosca! Certo che ne spara di cazzate. Ma è buono come il pane!”. Lo pensava per davvero. E probabilmente aveva ragione. Certo, era un gran contaballe, un po’ disonesto se vogliamo, ma molto tranquillo, generoso. “Io credo che la rassegnazione possa essere esplicativa…ehm volevo dire, quindi secondo te la storia dello schiaffo al cliente che l’aveva accusato di avergli venduto carne di Koala anziché di maiale era vera?”. “Ma certo che no! Pensa che una volta raccontò che entrò nella macelleria Van Damme ubriaco e che poiché quest’ultimo faceva il gradasso lui fu costretto a massacrarlo a suon di calci volanti”.
Si avviarono verso casa di gran lena, bestemmiando la madre, citando celebri saggi dei ‘Parerga e paralipomena’ la figlia.
Appena rincasate, Mariolina si chiuse in camera a leggere Sartre, Gina decise di innaffiare le piante.
Si sentì subito affannata, pensierosa. Si sedette sul divano e disse tra sé e sé: “E’ sorprendente. Una vita fatta di insuccessi e soddisfazioni, come per tutti, ma senza mai vivere con il giusto equilibrio qualunque suo aspetto, qualunque situazione. Ho sofferto e non ne capisco il perché, e a volte mi chiedo se quando credevo di essere felice non fosse in realtà solo la mera distorsione di ciò che di normale davvero mi accadeva e a cui semplicemente davo troppa importanza per l’appagamento immediato dei sensi, per usufruire del massimo col minimo.
Io non capisco questa vita, non riesco a collocarmi in nessuno spazio.
Non riesco a parlare quando tutti lo fanno.
Non riesco ad essere adeguata quando le situazioni lo richiederebbero, ossia quando tutti gli altri non dimostrano al contrario il minimo imbarazzo.
Non riesco a sopportare la fila alla posta ad esempio: quegli occhi puntati addosso, il tormento nell’attendere il proprio turno, la domanda insistente “Ma quante cose avrei potuto fare? Tutto e nulla”.
Non riesco a voler nulla.
Non riesco a sfuggire al tempo.
Non riesco a sopportare di non poter afferrare tutto ciò che ci circonda, l’intangibilità mi distrugge.
Un giorno tutto questo mondo scomparirà. Un giorno anche dio si accorgerà che forse qualche errore c’è stato, o perlomeno è ciò che mi suggerisce la mia ‘buona’ coscienza. Moriamo. E allora qual è il senso di tutto? Forse lasciare un segno. E poi?
Non siamo per sempre. Saremo dimenticati. E sarò dimenticata anch’io.
Non oso pensare a momenti in cui gli altri parlano, compiono azioni o più semplicemente vivono, e non pensano a me.
Non essere pensati, ma che cosa terribile! La memoria per un morto è serbata per così poco tempo rispetto a ciò che da vivo in realtà egli sia stato in grado di fare con ogni piccolo, quotidiano gesto che ha compiuto per anni.
La vita, cos’è? E’ un lento trascinarsi di anni, che in realtà per paradosso sono così veloci che si muore e uno se potesse ancora farlo penserebbe “Tutto qua? Così presto? Perché?”.
Tutto ciò che ho dato è niente. Tutto ciò che ho detto è niente e tutto ciò che provo è niente.
Allora una pensa che non c’è senso alcuno. A volte sento dire che l’amore in realtà colmi questo non-senso. Non lo so. Allora una come me alla fine cerca l’amore ma s’imbatte in qualcosa di più grande. E ha paura.
Che senso ha parlare bene di una persona, poi anche un piccolo gesto ti fa cambiare idea e dici “Ma come ho fatto?” e ti senti triste.
Un giorno và bene, un giorno và male. Come si fa a non essere confusi? Cerchi di pensare ad altro ma a cosa? Allora torni al discorso iniziale: l’amore. E’ tutto un circolo senza inizio e senza fine, e ciò che è più preoccupante, senza uno scopo.
E l’amore è solo un esempio da cui erroneamente partire e erroneamente finire. Che cosa sciocca.
E noi cadiamo come birilli nella trappola.
Non provare amore, dicono, è inumano. Allora sono inumana. Tre matrimoni falliti, e una figlia verso la quale non riesco a provare l’affetto e il calore che si confanno ad una madre.
Ma credo che nessuno lo provi per davvero, e allora è bene dire che tra noi umani c’è più di qualcosa che non và. La pseudoesaltazione è una cosa assurda. Sei felice, ma quando ti accorgi che è una felicità fasulla stai malissimo e preferiresti una vita in cui lo stato d’animo è sempre lo stesso: piatto, amorfo, inconcludente.
Incredibile quanto sia triste questa esistenza. Quando pensi “E ora?” così come quando pensi “Perché così sola e triste?” e non hai risposte. “Che fare?”. E non hai risposta. E ciò uccide la tua anima.
Quante cose ignoriamo. Non si può saper tutto. E non si può far capire alle persone tutto ciò che hai dentro, tutto ciò che sei.
Neppure mia figlia che legge dal mattino alla sera tutta la produzione filosofica possibile e immaginabile, perché vorrebbe capire la vita. Ah, povera piccola illusa.”
Pensò che avrebbe potuto far le scale e lanciarsi nel vuoto dal settimo piano. Pensò che l’indomani sarebbe potuta entrare nella macelleria, estrarre la rivoltella e massacrare il macellaio o la solita vecchiaccia che le era davanti nella fila. E poi magari farla finita, al grido di “meglio così che questa lenta sofferenza”.
Ma non fece nulla di tutto questo. Venne distratta da un vocìo che proveniva dalla strada. Si affacciò dalla finestra e vide un padre che camminava mano nella mano con il proprio figlio.
Il primo era sulla quarantina, distinto, non molto alto. Suo figlio dimostrava cinque o sei anni; un bel bambino scuro di carnagione, magrissimo, con due occhi nerissimi e due ciglia lunghissime.
Stavano parlando di qualcosa che avesse a che fare con lo sport, e quando Gina cominciò a capire il dialogo sentì che il figlio chiedeva al padre se un giorno fossero andati a guardare le olimpiadi insieme. Ma il padre scuro in volto, dopo una pausa, gli rispose “io non so se ci arriverò”. Il figlio abbassò lo sguardo commosso, inizialmente chiese a bassa voce “perché?” ma successivamente serrò i denti e fece silenzio. Aveva capito tutto, sapeva benissimo a cosa il padre alludesse. “E’ malato” si sorprese a pensare Gina. Si sorprese ad avere la certezza di quel pensiero circa uno sconosciuto e una sua semplice affermazione. E un gioco di sguardi tra padre e figlio rafforzò questa sua convinzione.
Era tutto così lontano dal suo mondo, così diverso eppure così semplice, così genuino, così vero.
Non era l’amore ciò che aveva imparato in quel gioco di sguardi, no, quello non s’impara.
Non era la vita, perché neppure quella si può imparare.
Ma era tutto vero. E la vita appariva come qualcosa che seppur non necessariamente comprensibile c’era e andava accettata per quello che era e che offriva giorno dopo giorno. Pur nella sofferenza, nel lutto, nei giorni in cui davvero non comunichi, non vivi, non gioisci ma subisci o ti sembra di farlo, non protesti, non ti alzi dinanzi ai soprusi e non vuoi altro che arrivi domani, e l’indomani che arrivi il giorno successivo, e il tempo passa e sembra di aver bruciato tutto, di essere persino regrediti ad uno stadio di pensiero antecedente nonostante l’esperienza maturata, le crisi e i pianti e poi ancora le file, il caldo, il tempo che non basta o quando non sai che fare e desidereresti ricevere una telefonata che non arriverà mai.
Cosa costa accettare, riconoscere che la sofferenza è parte di tutto e anche se dilaniante non può mai da sola significare voglia di morire per mano tua o per mano della vita stessa, così beffarda, così paradossale, così difficile.
“Cosa ti impedisce di reagire?” pensò.
Aprì la porta della stanza di Mariolina, le strappò di mano il libro di Sartre e lo lanciò dalla finestra.
“Mamma ma che cazzo fai?” esclamò la figlia.
“Un giorno capirai. Vaffanculo, tò, tieni questo libro, è un’autobiografia di Jamal Mashburn, ex stella NBA. Ma lo sai che nel ’94 fu matricola dell’anno con Dallas? Poi passò a Miami e giocò a lungo con Tim Hardaway, quello del palleggio incrociato, PJ Brown, Alonzo Mourning e Voshon Lenard che tirava da 3 e sapeva fare solo quello. Ma non voglio raccontarti tutto..”.
La figlia rimase un attimo interdetta. La madre le appariva strana, diversa. “Hai forse assunto delle droghe?”. “No” rispose Gina, “mi sono appena ricordata che stasera passano ‘Bande a part’ in televisione. Prepara il caffè. Come al solito lo passano alle 4 di notte”.
Ed entrambe si entusiasmarono dinanzi alla scena del balletto di Anna Karina.
Interessante il personaggio di Gina e le sue riflessioni, anche se usa un linguaggio verso la figlia falsamente paritetico. Ripassa l’ortografia dei monosillabi (accenti e apostrofi)perchè è già pesante sopportare un linguaggio discutibilmente pseudomoderno, ma pensa poi a come grida vendetta un “c’ho” alla Di Pietro e un “và” che può essere va’ o va, a seconda dei casi, ma và, no.
Non offenderti, ma, se vuoi scrivere, pensa a quei poveracci di editor e cacciati nei loro panni.
Coraggio e continua.
Ciao
Anna
p.s.: non farti fuorviare da quelli che dicono che le emozioni sono tutto,perchè non è vero. Dietro un grande autore c’è una grande scrittura, moltissimo esercizio e tanta umiltà.
Ti ringrazio!
comunque ci tengo a sottolineare che ho voluto che Gina si rivolgesse in quel modo alla figlia soprattutto per stemperare il clima di severità che il racconto comunque necessariamente doveva assumere, secondo le mie intenzioni chiaramente.
Ciao.
M.
Cara Anna, mi congratulo per il bellissimo commento. Sono d’accordo su tutto, in special modo su quanto affermi riguardo le emozioni. Davvero complimenti.
Raptus
Nella frase “C’ho ripensato và”, la forma “c’ho” può benissimo starci, essendo una astuzia grafica per indicare la corretta pronuncia spontanea della lingua parlata, si tratta infatti di un discorso diretto, quello che non va, invece, è quel “và” scritto con l’accento, che non sta né per l’indicativo né per l’imperativo del verbo andare, ma per l’interiezione “vah!”, forma grafica moderna del vecchio “va’ ” troncamento di “varda!” (guarda!).