Ouverture

I volti si rincorrono, volteggiano, gemono.
Cade la maschera e rimango in mezzo alla scena.

Mentre gli spettatori attenti mi crollano addosso, apro gli occhi a fatica per riemergere dallo stato d’incoscienza, quella timidezza detersa dai mari, dai venti e dalle piogge.
Da sapiente e tenace marionetta, rimango impigliata nelle maglie invisibili di un pazzo furioso che mi spinge oltre, là dove io non voglio andare. 

Laggiù c’e’ lo spartito, lo vedo!
Ma lui cammina sulle orme dei cipressi e diviene compagno in questo palcoscenico di rame. 

Il sole sorge piano e invade di bollicine gasate le luci della ribalta, rendendo gli alberi balocchi striati di colore.
Forse ho sbagliato battuta oppure sto solo sognando… 

Atto primo 

“Baciami adesso!”.
Togli via quel velo.
Sfida la sfumatura rosea e tenera della mia carne, con il pallido effetto olivastro della tua pelle.
Guarda le mie lenti grandi e chiare come splendono di verità complesse.
Specchiati ora nelle tue.
Chi vedi?
Una signora andante, che accompagna nelle ore di sonno, rubandoti i sospiri dal petto, filtrati da freddi guanciali distesi.

Cavillosa e portentosa, vi seziono ed avanzo sul podio. 

Eccola, bon bon e asprigna confezionata in panno lenci, che arranca al fianco come una lupa dal pelo sbiadito, abdicata alla catena del suo pastore. Non riesco a camuffare falsa tenerezza o esercitare un proclama di pietà.
Se fosse una bella donna, la guarderei in silenzio; se fosse una Gran Donna, leverei il trucco ed evaporerei la scena.
Se fosse una ragione di vita, getterei la spugna ed il copione. 

Mi sento oppressa, errando in questa mitica quinta urbana.
Sto scivolando tra le bolle saponate del risciacquo, per liberarmi ogni volta della spoglia pupale infetta che mi propini.
Ineffabile crisalide quiescente.
Se la tua faccia implora perdono, il mio make-up copre e se ne frega del brusio della spiegazione, che mormora chitinoso nei fori di farfallamento mobile delle antenne tonanti ed impertinenti. 

Fai l’eroe almeno una volta; schiudi il bozzolo, butta il biglietto e lasciami sciolta.
Sotto l’ipnosi schizzata a me tanto cara, rimpiango l’entusiasmo dei diletti prospetti.
Voglio librare sui miei testi, sublimando le pulsioni letali.
Per ricostituire un fresco spettacolo, con argomenti nuovi, visionari ed espliciti. 

“Libertà”.. Unica parola sincera per una raminga cometa! 

Tu sei Nessuno e nel tuo firmamento non c’è la mia casa.
In quest’altura dove uno è irresponsabile dell’altro, siamo solo frutti bacati da sciupare; due chicchi di riso separati in un cartoccio ignoto d’infondatezza ed ispirazione disorganizzata.

Se solo volessi, ti troveresti carponi a lustrare l’apparenza del lastricato di prezioso marmo.
Con me sopra; avvinta ad un guinzaglio che strattona il collo. Potrei tirare la corda e inumarti in una landa deserta, dove nemmeno una cagna spelata oserebbe fiutare l’odore della tua vergogna. 

Già stimo la scena.
Sensali sordi e ciechi vestiti in abiti neri, volteggiare come uno stormo di corvi rapaci sull’afflitta signora del palazzo.
Lei, mesta e coronata di canapa indiana gramolata, improvvisa solo due gocce, prima di abbracciare la lunga vampa rovente delle mie spalle.
Due spirali di pestilenza incuneano in un’unica pira furiosa che va e viene; nell’ira isolata che apre sulla roccia un cunicolo di fossi sotterranei e segreti.
Dove realtà e sogno s’avvinghiano, combaciano e s’accavallano come due lingue di fuoco.
Balzano accostamento. 

Riprendo l’atto e mi ridesto, assaporando il rumore del tuo seme che cresce sotto la superficie, spinge e spacca per affiorare addosso.
Inseguo la perfezione delle mani grandi e calde, dalla sensazione tattile di un singolare tramato di pelle di rospo. La mia spina ingorda è rimasta a trafiggere la gola, come il vestito tetro a nascondere le lividure dei segni rossi. 

Se non fosse per i dardi del sole che risplendono violenti, acuminati sopra le nostre facce in decomposizione, bandirei vogliosa e subito i tuoi
contorni insoliti.
Sulla scia di rughe scarnite e profonde, dove ho ricamato, fertilizzato e promosso un capolavoro.

Non saranno le vacche grasse a sfamarsi di te.
Sei pregno d’Amore.
Avvicinati, spogliati e getta il costume.
Fatti scaldare le ossa tristi come pale di un vecchio becchino.
Ti ho annodato i fili e riconsegnato la partitura.
Terminiamo l’opera.
“Baciami ancora!”. 

Atto secondo.

Sono le mie dita monche a scegliere nel buio della tasca uno stralcio di spartito qualsiasi.
Vorrei recitare ancora per te, ma ho dimenticato.
Come una mongola incapace di muoversi, sulla quale le formiche hanno trovato dimora tra le pieghe dei Sensi corruttibili e dei Sentimenti superni. 

La platea ampia, occulta un campo disseminato di teste.
I posteri di un teatro di battaglia, con il faro dal candore frigido a segnare i corpi trafitti da una melopea solenne e virtuosa, che forse mi appartiene. 

Ora sono così, un tessuto vocale sciolto e consapevole.
Si rompe il fermacarte e la piantana giace.
I riflettori irradiano la tua figura asettica, impudente e tutto è quieto.
Silenzio. 

Azzardo il tuo nome.
Il treno lento sta trattenendo il fiato ed attraversa ramati deserti.
Ecco la meta, non è lontana!
Nell’iconografia della catacomba, sono l’Araba Fenice che ricompone il diario. 

Piove l’applauso. Graffiano sonore e pesanti le spine di rose appassite sulle mie gambe.
Come lame appuntite di coltello, ti domanderò se ho vissuto troppo tra la solitudine dei boschi e nei regni incantati delle fate.
Stordendo l’anima e la mia cera sull’orlo di uno spiffero a forma di proiettile che ti ha centrato, sorpreso ed abbattuto. 

Come te ho cantato, sognato e sofferto.
Rincorrendo le silfidi lussuriose attraverso palchi bellissimi, sono sfuggita ai frastuoni che m’inseguivano, nelle notti senza nessuna stella. 

Ti ho cercato dappertutto, basando le mie speranze nella cripta delle fondamenta delle tue spoglie.
Col tuo germe ho addolcito la terra dura ed abbeverato la mia Passione. Ho nutrito la mia coda svolazzante vestita di niente, con un velo d’aria tinto d’indaco azzurro. Affascinata dal malefico genio che geme e urla pietà per chi ha l’animo più forte, strappo l’unico geranio ai piedi della gran lastra di pietra, per scagliartelo addosso.
Come un violino sdilinquito e scordato.
Assorbo la tiritera del tuo pentimento, proclamando forte la virtù appassita in un ingiallito bouquet di fiori d’arancio. 

Che il pendolo si arresti alla venticinquesima ora e che nessun antiquario svenda il connubio! 

Il privilegio della tua traccia resterà solamente una concezione.
Senza logica nè prove. 

Hai sentito la notte?
Odora d’idrogeno dalla formula melensa e stanca.
C’è il rischio che tu possa esserne colpito, vinto dal soffio logoro e dai suoi ritorni.Oltre la tenda lucidi millepiedi stanno protendendo ciglia artificiali.
Questa volta non sbavo il rossetto ed immobilizzerò il tempo, nella parodia perenne di una fallace distinzione. 

“Baciami piano”.
Come fosse l’ultima volta possibile.
Con la tua testa immobile densa di sangue.
Stasera indosso per te un vestito di candido pizzo bianco.
Impachettato a sudario.
Inverso al tuo.

L’abito del boia ha sempre il sapore della cenere, residuo di una violenta fiammata divina.
Per te io non rischio la testa, né la vita.

L’ansia è scomparsa.
Le voci tacciono. 

Rimango sola sulla pedana che s’inclina come un piatto da svuotare.
Frammenti di pensieri roventi mi colpiscono con una scarica di versi estemporanei.
Cerco disperatamente di ancorarmi al tuo petto, ma la pelle è liscia come una lastra di vetro liquefatto.
Immagino lo scrigno che ti scivola dalle mani, e versa il contenuto.
La cipria gialla sale nell’aria, come polvere d’oro della foresta secca di Dunarobba. 

Sei davvero perduto.
Con gli occhi screziati di luce trasformo la mia pretesa, in una carcassa d’immense sequoie e di misurabili apidi, pronta a punirti ed intrappolarti.
Il pantano addosso in un acquitrino nero che snerva e buca l’oblio.
L’esalazione del Senso che brucia ardente nell’angolo del tuo emisfero sommerso. 

Sì, ho ancora una camera per te.
La voce vacilla per diventare patina spessa e lo sguardo, una cataratta lattiginosa e rossastra che vela i miei occhi di porcellana rotta.
Ti sussurro accanto con le cosce trasparenti ed allungate, dal profilo d’eucalipto tasmano. 

Tu non dovrai mai pronunciare il mio nome.
Rimarrai a guardarmi, con la luce spenta dei tuoi capelli incolti.
La matassa corvina che fluttua e riempie lo spazio, l’escrescenza di te che mi appartiene.
E mi accompagna.
Il mantello di lana scura che affoga nell’intervallo che io ho scelto, attraverso mille congetture perfette, ficcate nella tua coscienza inebetita. 

Gli strati scottano tra le mani e disegnano una scossa epilettica di allucinazione.
Con le cellule rovesciate cerco l’interruttore per spingermi oltre la soglia del tuo trotto.
Frenetico, ardente. 

Fammi andare via dissennata e posseduta!
Redimi padrona di schiacciare gambe, braccia e petto sotto gli zoccoli di legno.
Voglio impantanare il tuo mondo di bava spessa con lo spazio del mio sudore.
Lasciami massacrare le moltitudini oscene dei miei e dei tuoi messaggi. 

Tu sei la mia Opera e nessuno oserà fermarmi. 

Persevero e la mia nuca sottile indovina il filo dell’ascia.
I muscoli tesi del collo tendono a scoppiare e ciascuna delle corde si espande sino al delirio.
Cade, furioso, il fulmine dell’applauso. 

Atto finale 

Rido, rido, rido… 

Il tuo odio si ferma sulle zampe posteriori, teso come un arco, crocefisso contro la sedia.
Sono un rogo vivente, vomito lava e sputo sulla tua disgregazione.
Quando il battito si estingue, non rimango cadavere.

Una commediante pazza senza ossa frantumate, né cervello incenerito.
Di me resta tutto.  

Il mio rifiuto oscuro non giace a terra come la corolla spampanata che mi hai gettato. 

Sono qui, a galla, nel tuo afrore.
Nuoto sulla pozza delle secrezioni fermentate, per sussurrarti che i vermi e i germogli hanno lo stesso alito e restano guardiani sulla nostra culla tutelare. 

Rimanendo adespota e clandestina.
Il nutrimento è composto dai raggi colmi di scienza,  messaggeri pellegrini di un patriarca riconosciuto apocrifo.
Onore tuo, che hai occupato un posto, un trono alto nel nostro gerarchico firmamento. 

L’anatema ed il castigo sono delle infime reliquie che hanno ingannato le censure e preservano frammenti d’aghi sconnessi.
Te li delizierò piano, sottopelle, col mio sorriso lucido e cremoso, dal profumo d’insolito mirtillo. 

Rincorro silenziosa la quiete della pièce, proteggendo il battito agonico del mio sangue.

Che altro vuoi?
Il tuo peso piega le mie ali, sei solo un corpo, senza vita.
Un uomo in dormizione, sostenuto dal mio refolo vaporoso e gemente di troppe arguzie baldanzose ed impudenti.
Giocando sui tuoi riccioli supplicanti, non comprendi cosa lamenta l’aria?
Odore di buono e di novella.
E questa corda al collo che ti trattiene nel mio spazio? 

Continuo a recitare ruotando su me stessa.
Come un’adolescente, mi stormo dalla tua nuova ingiunzione e nel fremito della carne appesa, ritorno alla primitiva lentezza.
Il peggiore e supremo grado di questa prova è la cognizione del tuo essere dilatato, insufflato dalla sentenza del mio orifizio nobile.
Ma io raddrizzerò la testa e libererò le forme e le ali. 

Non pronunciare mai il mio nome.
Non è il solo su mille bocche brulicanti nella sala.
Io ne ho tanti, multipli e mutanti.
Carichi di risonanze ed echi taciti e antichi.
Pezzi di lamina e di rumore. 

“Baciami stupido!”
Ed onora l’ovazione.
 

(…Mi sento di affermare che le mie parodie brillano di un’essenza che attraversa la parola e ogni imperfezione. Tutta la produzione è stimolata dallo splendido Sole ardente che pulsa nel mio petto. Proprio perché nel cuore ho la Luce, l’oscurità diventa ottenebrante buio.
Nella consapevolezza di un Paradiso, potrò avere così una profonda esperienza dell’Inferno.
Ognuno di noi è pieno d’Amore universale che può distaccarsi o sublimare nella sfera divina dei Sensi, dei Sentimenti e tripudiare nell’Arte.
Solo i mediocri ed i superficiali non conoscono quest’aspetto.
Ecco perché poi, follemente, me ne innamoro…)

 

GretaRossogeranio”

 

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