Domani tornerò libero!
Dopo 21 anni, due mesi e tre giorni di galera. Per buona condotta.
Gli psichiatri e il giudice del tribunale di sorveglianza sono stati concordi: hanno deciso che avevo espiato la mia colpa, che potevo essere reinserito nella società.
Lo hanno scritto nell’ordine di libertà, con un’interminabile sequela di articoli di legge e d’incomprensibili termini giuridici.

Quando la Corte del Tribunale di Lugano mi aveva condannato all’ergastolo, avevo appena compiuto 23 anni.
Tredici mesi prima avevo assassinato, a colpi di martello, mia suocera e mio suocero.
Mia moglie Christiane ed io vivevamo in coabitazione con i suoi genitori, entrambi ultrasettantenni.
I due vecchi mi avevano reso la vita un vero inferno, ma Christiane non voleva saperne di trovare un piccolo appartamento tutto per noi.
“Non ci sono abbastanza soldi!”
rispondeva immancabilmente alle mie lamentele, sempre più insistenti.
All’ennesima provocazione di quella megera di mia suocera, spalleggiata da quell’orco di suo marito, ho visto tutto rosso.
Sono andato a rovistare nel ripostiglio degli attrezzi e ho preso un mazzuolo da muratore.
Prima ho sfondato il cranio del vecchio, poi quello “più duro” della vecchia arpia.
Hanno sempre detto di me che ho un carattere dolce e remissivo.
Con l’eccezione di quei pochi istanti di devastante furia omicida, sono stato, infatti, sempre una ometto calmo e mite.
Anche in galera ero adorato dai compagni e dai guardiani.
È per questo mio buon carattere e per essermi pentito dell’orribile gesto compiuto, che mi lasciano andare via da qui.

In questa prigione ed in questa mia cella, ho vissuto ventuno anni, due mesi e tre giorni di gran pace e serenità.
Bastava rispettare le regole e tutto procedeva liscio come l’olio.
Mi hanno permesso di leggere, coltivare degli hobby, scrivere, disegnare, leggere e mantenermi in perfetta forma fisica.
Ma la mia vera passione è il bonsai.
Il bonsai è l’espressione dell’antica arte cinese e giapponese di riprodurre in miniatura alberi che conservino le proporzioni e l’aspetto di quelli cresciuti naturalmente.
Ho scoperto questa tecnica di giardinaggio leggendo un libro sull’argomento. Ne sono rimasto subito affascinato.
Potevo tentare di ingentilire la mia minuscola cella singola con una piccola foresta d’alberelli veri. Piccoli, ma veri.

Il direttore del carcere mi ha consentito di coltivare quest’attività, aiutandomi anche per gli acquisti di vasi, attrezzature, terricci, concimi ed altri materiali di consumo.
Mi ha persino autorizzato, violando tutti i regolamenti carcerari, di tenere un coltellino, arnese indispensabile per fare i bonsai.
“Marco” – mi aveva detto la dottoressa Nocerini – “so che di te mi posso fidare. Non deludermi e non farmi pentire della mia decisione, d’accordo?”
Mi ci volle tempo, buona volontà e tanta pazienza, ma alla fine certi termini ed operazioni tipiche del “bonsaista” non ebbero più segreti per me:
i tipi di terriccio e d’irrigazione, talee e margotte, concimatura e defogliazione, invaso e capitozzatura.
Oggi – dopo anni di lavoro, delusioni e gioie – ho quattro magnifici esemplari che destano l’ammirazione degli altri detenuti e del personale del carcere e dei quali sono molto orgoglioso e ne vado fiero.
Un pino nero alto 64 centimetri, un olmo di 25 centimetri, un biancospino di 60 centimetri ed un leccio – il mio preferito ed il meglio riuscito – di 76 centimetri.

È notte. Le luci sono spente. Non riesco a dormire e penso.
Che ne sarà di me domani, dopo che varcherò il portone della prigione? Dove andrò? Cosa farò?
Sono anche preoccupato per i miei alberelli: che fine faranno, chi li curerà?
I miei genitori sono morti da tempo e la loro piccola casa di campagna è stata venduta da mia sorella, che si è intascata tutto il denaro ricavato.
Lei, mia sorella, non è mai venuta a trovarmi in tutti questi anni.
Neppure una lettera, una cartolina, un biglietto d’auguri.
Non so neppure dove viva.
Christiane, mia moglie, che al processo mi urlò con odio feroce
“che tu sia maledetto per sempre, bastardo assassino!”,
dopo l’annullamento del matrimonio è sparita nel nulla.

I pochi altri parenti, zii e cugini, mi hanno evidentemente rinnegato e neppure loro si sono mai fatti vivi.
Non ho nessuno che mi aspetta. Non avrò un tetto in cui ripararmi. Né un lavoro con cui mantenermi.
Certo, l’assistente sociale che lavora presso il carcere mi ha assicurato l’ingresso in una comunità.
Mi ha anche detto che posso ancora rifarmi una vita.
Ma che razza di vita?
Io qui, nella mia cella, sto bene, mi sento al sicuro, protetto.
Ho i miei amici con cui chiacchierare. Tutti mi vogliono bene.
Ho una gattina affettuosa che mi ha regalato un’agente di custodia.
Ho, soprattutto, i miei bonsai da curare come i figlioletti che non ho mai avuto.

Questa ultima e lunga notte non finisce mai.
Finalmente spunta il nuovo giorno, quello della libertà.

È un tiepido giovedì di fine aprile. Fuori, forse, i viali alberati della città saranno già ombreggiati dalle prime tenere foglioline.
Sabrina, la mia gattina, sta aspettando – paziente e docile come sempre – che le dia la sua pappa mattutina.
Fa le fusa e mi fissa con i suoi occhietti di color topazio.
Dovrò abbandonare anche lei!
Non ho voglia di alzarmi, di fare toeletta, di vestirmi.
Tra un po’ arriveranno le due guardiane del braccio C per portarmi all’ufficio matricola, ritirare le mie poche cose e poi a salutare il direttore.
Il vaso del pino nero è il più pesante.
È un bakudan di gres dipinto di un colore verde foresta.
Quando entra Giulio, l’agente di custodia venuto in avanscoperta per vedere se sono pronto per il gran giorno, riceve in testa il bakudan di gres dipinto di un colore verde foresta.
Per fortuna il vaso non si spezza, ma il cranio di Giulio forse sì, a giudicare dalla pozza di sangue che si forma sul pavimento della mia cella.

Adesso nessuno mi separerà più dalla mia amata gattina e dai miei bellissimi bonsai.
Che me ne farei della libertà senza di essi?
Sabrina mi salta in grembo e fa le fusa.
Le accarezzo il pelo lucido e morbido, mentre attendo che venga qualcuno a prendersi cura di Giulio – appuntato del corpo degli agenti di custodia – ferito o forse morto – per causa di servizio!

4 commenti su “Il Bonsai”
  1. Beh… di nero c’è parecchio, però devo dirti che mentre leggevo mi aspettavo una reazione del genere. Sono un’appassionata, nel mio piccolo, della mente umana, anche se devo dire, l’essere umano sta perdendo molto terreno e continuamente, direi.
    Comunque hai saputo ben raccontare la povertà di certe menti.
    5st.
    Sandra

  2. Coinvolgente la lettura, si avverte il senso di smarrimento che nei reclusi a lungo porta al distacco dalla realtà, la cella diventa una tana, paradossalmente un rifugio rispetto all’incognita della vita, ai problemi dell’inserimento nella società.

  3. Ottima la narrazione, ottimo il lessico, ottimo il messaggio… complimenti sinceri! 🙂

  4. Complimenti! ^_^
    Devo ammettere che per un attimo mi aveva ipnotizzata, quando diceva che fuori non lo aspettava nessuno però quando ha aggredito l’agente è stato come risvegliarsi di colpo da un sonno profondo.

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