In quel giorno di festa, accadde quello che non mi sarei mai immaginata e penso che questo sia il momento giusto per raccontarvelo, per mio sfogo personale e per il vostro piacere di leggere.

L’anno della riscossa era appena iniziato: ad ottobre avevo recuperato due dei tre debiti datemi a fine giugno ed ora ero appena entrata a far parte del club delle seconde! L’idea di essere in seconda superiore non era male, anche perché voleva dire non essere più in prima, un brutto ricordo. Ma la mia anima non era ancora del tutto tranquilla: quella mattina avrei saputo il risultato del terzo ed ultimo debito, materia: chimica. Penso che una materia più stupida non potesse esistere in quell’istituto; forse dico così perché proprio non mi piace o forse perché avevo un professore alquanto imbranato. Può succedere, anche in seconda media mi ero ritrovata con sufficiente in italiano perché la prof sosteneva che ero un’incompetente. Ma torniamo in classe e indietro di qualche mese, con quelle persone che non mi avevano mai convinta sin dal primo sguardo.

Aula 222: ero agitatissima, non riuscivo a stare ferma, continuavo a parlare e parlare e parlare… davvero insopportabile; solo oggi mi accorgo di quanta pazienza abbia avuto bisogno il mio compagno di banco per sopportarmi! Ma io avevo un conto in sospeso con la scuola. Durante il cambio dell’ora, il caos prese il sopravvento e in aula tutti i miei amici se ne andavano in giro urlando e ridendo; Finalmente entrò il professore. Cercò di riportare la calma: i suoi sforzi, anche se pareva non s’impegnasse un granché, furono invani. Mi si avvicinò con le mani in tasca, portamento di un uomo stanco di insegnare e con quel suo sorrisino  un po’ malefico e un po’ compiaciuto. “Tommasi Anna. Bè, complimenti. E’ stata l’unica studente ad aver superato il debito di chimica, congratulazioni!” disse, quasi annunciasse a un telespettatore che aveva vinto 250 euro. Si, qualcosa comunque di poco conto. In ogni caso, io credetti alle sue parole; reagì d’impulso, il mio cuore pulsava in battere e levare a un tempo rock e la colonna sonora di quel momento doveva per forza essere “Have a nice day” di Bon Jovi. Ero troppo felice, avevo raggiunto il mio obbiettivo: salvare l’anno facendo “bingo”! Avevo una gran fiducia in me stessa e non potevo fallire… l’incubo era presumibilmente finito…

Novembre, Venerdì 17: cosa poteva accadere di così brutto nel giorno più sfortunato dell’anno? Ovvio, le pagelline! Negli ultimi tempi mi ero presa troppa tranquillità e sicurezza, forse era per questo che ero un po’ in ansia quel giorno, ma forse era perché dovevo fermarmi in centro a prendere il regalo di laurea a mia sorella. Non c’è niente di più bello che festeggiare il successo della grande amica di tutti i giorni: proprio Lisa, la mia piccola sorellina di 22 anni! Sapevo già cosa prenderle ed ero già organizzata ad addentrarmi in città con le mie grandi amiche d’infanzia: la mitica Bea e l’immancabile Anny. Al suono dell’attesissima campanella, corsi subito all’uscita del liceo dove andavano le mie ex compagne: le vidi, sorridenti e instancabili come sempre! Quello era un giorno importantissimo, perché dovevo prendere il regalo più significativo di tutta la mia vita. Così, tutte riunite, prendemmo un autobus e scendemmo davanti al negozio prescelto. Era d’avvero bello stare in loro compagnia: le amiche di sempre. Entrammo; in meno di un centesimo di secondo, dal nulla, ci ritrovammo circondate da una quantità infinita di vestiti. Jeans all’ultima moda, Converse di ogni colore e maglioni di ogni genere: se fosse stata mia sorella avrebbe detto:”Maaaamma! Cosa pagherei per lavorare quii!”. Si, lei era fatta così. Maniaca dei vestiti, gonne, occhiali, pantaloni, camice… ma lei un debole ce l’aveva, ed io lo sapevo: desiderava le nuove Tiger. Bianche con le strisce azzurre e rosse che attraversavano il lato destro e sinistro della calzatura. Ed erano lì, splendide, bianche come se fossero state lavate con il Dash e il Perlana messi insieme. Le mie amiche si erano già date alla pazza gioia dello shopping, mentre me ne stavo impalata davanti al futuro regalo per la mia compagna di vita. Ma qualcosa mi svegliò. Il telefonino prese a “tremare”, sembrava terrorizzato: sul display era scritto a lettere chiare “mamma cel”. “Mamma cel”? Strano, non mi aveva mai chiamata col cellulare! “Tommasi a rapporto!” risposi, come era d’abitudine rispondere ai miei genitori, così per scherzare. Sentii confusione, la sua voce arrabbiata e un groppo alla gola. “Mamma, cosa dici? Puoi chiedere al profe, mi ha detto lui che il debito l’ho superato un mese e mezzo fa!… non so perché sulla pagella ci sia scritto che non l’ho superato, ma a me ha detto che non ho più problemi in chimica…”. Vuoto. Non sentivo più mia madre al telefono, forse perché non volevo sentire. Ero stufa dei problemi, mi ero fatta tutta l’estate a pensare al come risolverli. Ora ce l’avevo fatta ma uno stupido pezzo di carta diceva il contrario. Davanti a quelle scarpe non avevo più uno sguardo da sognatrice, sembrava di vivere in un incubo. Riattaccai bruscamente, non trovai più nelle Tiger “la calzatura perfetta”, ma un’insignificante e stupida scarpa da tennis. Le mie amiche mi si avvicinarono frettolosamente e nei loro occhi leggevo mille punti di domanda. Raccontai loro cosa mi aveva detto mia madre al telefono e non riuscì a trattenermi. Mi sentivo distrutta, con una gran voglia di giustizia. Il cellulare riprese a vibrare: avrei voluto gettarlo nelle fiamme dell’inferno. Mia madre ora mi parlava con una voce più tranquilla. Aveva appena parlato con il mio professore di chimica che confermava quello che le avevo detto. Forse sulla pagellina c’era stato uno sciocco errore di trascrizione, chi lo sa.

Presi le scarpe numero 38 e un quarto rimisi il portafoglio vuoto in cartella e montai sul primo autobus diretto a casa mia.

“Mi sembra impossibile..” dissi alla mamma quando arrivai a casa: ”mamma, tu non capisci, tu stai dicendo che molto probabilmente la mia coordinatrice di classe ha fatto un errore di trascrizione sulla pagellina! E’ impossibile un suo errore!”. Non potevo credere e, a questo punto, sperare, in un errore di una prof d’eccellenza. Avevo sempre avuto fiducia nei miei insegnanti, salvo casi a parte, ma in lei ho sempre visto quel pizzico di professionalità in più. Si era fatta sera, non cenai e non parlai più finché me ne andai a letto. Cominciò a nascere la paura, un senso di tradimento da parte di quelle persone che mi circondavano per 30 ore la settimana. Mi addormentai, con l’immagine del sorrisino bieco del mio professore alle 1.43 del mattino e mi svegliai con i suoi occhi ancora puntati su di me.

Un incubo, era la mamma che cercava di svegliarmi. Uscì di casa prima possibile e riuscì a prendere la corriera. Mi misi l’i-pod alle orecchie e cercai di ascoltare un po’ di musica; provai con il pop e il rock e il rap ma non riuscii a distrarmi. Ero preoccupata, pensierosa, ansiosa; volevo sapere la verità. Il mio cuore urlava giustizia ma era incatenato, si, ad una menzogna. A scuola non fui la solita Anna che andava in prima G a cercare la pazza Cri, giù in prima I a curiosare dalla Terry o che restavo semplicemente davanti alla classe ad aspettare qualche amico. Lì, seduta, zitta e confusa. Aspettavo. L’attendevo con ansia da una notte, la prof della verità. Passarono una e due e tre ore. Eccola, sorridente, con la sua decisione e con la sua affidabile professionalità entrò in classe. Andai subito da lei ma mi disse che avrebbe saputo qualcosa all’ultima ora. Non avevo altro da fare che attendere. I minuti passarono lenti, come se il pianeta avesse dovuto fare 10 giri completi sulla sua orbita. La classe si spostò nel laboratorio di chimica al suono della campana: brutto posto, quello. Mi mossi nel silenzio della mia testa, tra le scale e i corridoi, arrivando in laboratorio dal professore di cui preferisco non esprimermi. Entrò la coordinatrice, senza sorriso, nella confusione: io ero proprio davanti a loro due che parlottavano, ma non mi avevano vista. Mi sentii svenire, la testa andare da un’altra parte e una gran voglia di urlare si faceva strada nel mio spirito. Anche se non l’avevo forse dimostrato, la scuola la ritenevo importante ed avevo sempre avuto buoni voti, superiori a parte. L’insegnante dal buon cuore mi si avvicinò, cercò forse di consolarmi, ma io volevo vendetta. Era ingiusto. Come passare da un caldo e comodo letto a una brandina sotto un ponte. No, non ci stavo.

I giorni passarono, ebbi una piccola discussione con la meschina professoressa che mi aveva fatto l’esame. Non volevo accettare le sue giustificazioni e io glielo dissi in chiaro e tondo:”Non me ne può interessare niente di chi sia la colpa, resta il fatto che qui ci rimetto solo e ingiustamente io.”.

Il mondo fece i dieci giri sul suo asse e tra l’oscurità e la luce, nel mio cuore c’era sempre il dominio delle tenebre. Andai dal preside con mio padre, che semplicemente mi chiese scusa. Sinceramente non mi aspettavo le sue scuse: nessuno dei due sinistri professori di chimica si era fatto avanti. Un “mi dispiace” o “è stato un errore” mi sarebbe bastato ed era questo che mi aspettavo. Ecco come una vita di una povera studentessa del secondo anno può essere rovinata, ma per fortuna il mio carattere reagisce d’impulso…

Non sono di certo quel genere di ragazza che si arrende, se pur avendo appena passato le pene dell’inferno, per chi crede e ci tiene alla scuola. Ma questo l’ho scoperto di recente.

Avevo avuto una ricaduta, avevo assaporato il gusto della vittoria che poi mi è stato tolto ingiustamente. Ma bisognava guardare il lato positivo: ero diventata più forte; avevo capito quali erano veramente le persone che valevano in quelle quattro mura dell’istituto, come la grande professoressa che era sempre un gradino più in alto degli altri. Ancora oggi se ripenso a quei momenti mi torna quell’angoscia e mi pento di aver vissuto così male la laurea di mia sorella. Ma sono solo ricordi, brutti incubi. Posso solo ricordarli perché una donna di grande cuore mi ha saputa in qualche modo aiutare, ha cercato la verità anche se non era propriamente suo dovere. Nei mesi successivi non mi è stato regalato niente, come è giusto che sia, e la mia reazione è stato l’impegnarmi in quella materia odiosa. Ho raggiunto il sei e così facendo ho distrutto il debito, bruciato, estinto. Ho salvato l’anno. Ho acquisito più autostima, ho imparato a vivere ogni giorno con la massima serenità a disposizione ed ora sto cercando di dare il massimo in ogni cosa che faccio. Quel maledetto debito mi aveva rapita dalla mia squadra di calcio, mi aveva obbligata a lasciarla ma ora sono pronta a ricominciare e sfido qualunque altra insidia a farsi avanti.

Un semplice giorno può essere distrutto da un misero errore, ma se tutti ci mettessimo un po’ di impegno, i giorni sarebbero tutti più tranquilli e felici.
 
 
Anna Tommasi

 

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