A Gianni sarebbe piaciuto molto viaggiare, ma non poteva, aveva paura. Qualsiasi mezzo di locomozione lo terrorizzava e paralizzava, persino una bicicletta. Per sua fortuna, o forse per sua disgrazia, lavoro, casa, edicola, negozi, e cinema gli stavano intorno. Gianni si muoveva solo a piedi. A piedi, una volta, s’era fatto ventidue chilometri, solo per vedere il mare, da lontano. Tanto per dare una parvenza di viaggio alla camminata s’era portato la tenda, una piccola canadese, chiesta in prestito al suo amico Guido. L’avventura era stata pianificata con cura: Carta stradale, guida dei sentieri, lo zaino, delle provviste, più di un cambio d’abiti e la tenda. Aveva pensato di star via due o tre giorni e invece, partito all’alba di sabato, la sera stessa era tornato, stanchissimo e deluso. Dal colle sul quale era salito di mare se ne vedeva solo uno pezzetto, un triangolino azzurro appena più scuro del cielo. Seduto all’ombra di un albero era rimasto un paio d’ore a guardare il mare finché da un bordo del triangolo azzurro non era comparsa una nave. Una delle tante paure di Gianni aveva visto nella scia lasciata dalla nave una ferita. Il mare aveva saputo guarirla, cancellarla e dimenticarla. In lui era rimasto un graffio, come la strisciata di una chiave sulla portiera di un’auto.

A Gianni non dava fastidio guardare un treno e saperlo gremito di persone. Non gli davano fastidio né gli autobus né le automobili, solo non ci saliva. Gli dava fastidio sentirsi domandare “di che hai paura?”. Non lo sapeva, e per questo odiava quella domanda. Quando era ancora piccolo sua madre l’aveva portato dal dottore, uno psicologo, per vedere se fosse possibile guarirlo da quella strana malattia, ma il dottore stava in città e Gianni aveva dovuto prendere l’autobus. Nonostante ci fossero numerosi posti a sedere vuoti lui era rimasto in braccio a sua madre, tenendo gli occhi chiusi, per tutto il tragitto e non aveva voluto scendere dalle sue braccia nemmeno, quando arrivati dal dottore, erano scesi. Lo psicologo non era riuscito a scucirgli nemmeno una parola. Siderodromofobia, era stata la sentenza dello psicologo. Tornato a casa gli era salita la febbre ed era stato male per tre giorni, senza riuscire a mangiare, né a parlare. Poi, però, si era ripreso e la sua vita era tornata a camminare tranquilla.

La lotta fra paura e voglia di viaggiare aveva consumato Gianni per anni finché, un giorno, non aveva risolto il problema a modo suo. “ Se le mie paure mi impediscono di andare dove tutti vanno tranquillamente io chiederò a tutti di prestarmi i loro viaggi, i loro ricordi, affinché possa, se non viaggiare, almeno sentire il viaggio, viverne un riflesso”. Facile a pensarlo. Complicato e, a volte imbarazzante, chiedere dei ricordi in prestito. Molto più semplice rubare. Non è un reato ascoltare le chiacchiere della gente e memorizzare alcuni particolari per poi ricollocarli, assemblarli e modificarli a piacere immaginandosi un proprio viaggio.
All’inizio Gianni si accontentava di poco. La descrizione sommaria di un chiosco di bibite sulla spiaggia bastava a dissetare la sua curiosità. Ma, dopo un po’, aveva cominciato ad immaginare l’ambiente intorno a quel chiosco: La spiaggia, le vele bianche passanti sull’orizzonte, i pini marittimi con la loro ombra fresca, gli insetti e persino i piccoli oggetti smarriti dai bagnanti. Con le persone aveva ancora delle difficoltà. Gli altri, tutti gli altri, erano diversi da lui. Ma, con il tempo, aveva imparato ad inserire anche le persone nei suoi fantastici viaggi.
Gianni era gentile con tutti e sorrideva sempre, ma non era mai il primo ad iniziare una conversazione. Conversazione è una parola grossa. Rispondeva, sintetico e attento a non sbilanciasi; quasi avesse paura di annoiare o di andare fuori tema. I suoi viaggi non li raccontava a nessuno.

Ad un certo punto rubare i ricordi di viaggio non gli era più bastato. I luoghi descritti dai vacanzieri o da chi per lavoro era stato in altre città erano troppo diversi dal paesaggio in cui era cresciuto. Doveva saperne di più su quelle mete per costruirsi un suo viaggio. Chiedere maggiori dettagli ai passanti o agli amici era fuori discussione. Avrebbe dovuto discutere, magari a lungo. Troppo difficile ed imbarazzante dover spiegare perchè lui, al contrario degli altri, non viaggiava mai. E poi, lo sapeva, sarebbe tornata a galla la storia del viaggio in autobus per andare dal dottore e anche solo ricordare l’unico piccolo viaggio reale della sua vita, era doloroso. “Ai libri, con un poco di pazienza, si può chiedere di tutto, senza sentirsi domandare alcunché”. Si era detto un giorno; e nel pomeriggio, attaccando un cartello che diceva “ torno subito” alla porta del suo negozio di scarpe, era andato in biblioteca. La biblioteca del paese era piccina, ma aveva un gran pregio: lì il silenzio era apprezzato.

Appena entrato in biblioteca la ragazza che stava dietro al bancone aveva appoggiato la pila di libri che teneva in grembo e gli era corsa incontro con gran sorriso che, però, subito si era trasformato in una esagerata smorfia di rimprovero. La smorfia gli era rimasta sul viso anche mentre, mettendogli le braccia al collo, gli aveva detto: “ Non ti vergogni? Lavoro qui da due giorni e ancora non sei venuto a trovarmi. Mica ti mangiavo se passavi, villano”. Gianni era confuso e imbarazzato. Confuso perché non aveva riconosciuto subito Serena, la sua amica, compagna delle elementare e delle medie. Lei e Guido erano stati gli unici suoi coetanei a considerarlo normale, pur prendendolo un po’ in giro, ogni tanto, ma mai in modo velenoso, cattivo. Erano sei anni che non la vedeva e le trecce, i brufoli, i grembiuli e le calzette corte di cotone non c’erano più. Gianni era imbarazzato perché si ritrovava al collo le braccia di una bella ragazza, che portava i capelli corti, da maschietto, un trucco leggero che metteva in risalto i suoi occhi verdi, un vestito corto, verde salvia, scampanato, che non riusciva a nascondere un corpo in fiore e un paio di scarpe, dello stesso colore del vestito, con un tacco sottile, ma non tropo alto.

L’espressione sorpresa di Gianni parlava per lui e Serena, che lo ricordava bene, non si aspettò una risposta. Al contrario, smessa la smorfia di rimprovero, lo prese per mano e se lo tiro dietro, fino al tavolo più vicino. “Voglio sapere tutto di te e di quello che è successo qui in paese in questi anni che ero via” gli disse tutto di un fiato. Poi, ricordandosi che Gianni era un avaro di parole, aggiunse “No. Non mi importa del paese. Di te invece si. Però, non ti interrogherò come facevo quando andavamo a scuola; sono cresciuta e spero di essere meno stupida e meno crudele adesso”. E poi aveva continuato: “Perché non ci facciamo una pizza, questa sera. Passo a prenderti io. Abiti sempre lì, sopra al negozio di tuo padre e che immagino oggi sia tuo, vero?” “Si”. Riuscì a dire Gianni. Con un solo si aveva risposto a tre domande: si, abito sempre lì. Si, ora il negozio è mio. Si, la pizza, questa sera, va bene. “Perfetto. Sono proprio contenta di rivederti” aveva detto Serena alzandosi. Anche Gianni si era alzato e lei lo aveva abbracciato di nuovo.

Gianni era quello di sempre, aveva pensato Serena. Il bambino timido che le infilava bigliettini, con fiori e cuoricini disegnati, nelle tasche del grembiule o nella cartella; bigliettini che lei aveva sempre fatto finta di non trovare, mentre invece li conservava tutti, e li conservava ancora, dentro ad una grossa scatola di latta, su di una mensola di camera sua. Naturalmente anche lui era cambiato in quei sei anni. Gli occhi neri e profondi, dietro ai quali non potevi nemmeno immaginarti una bugia, non erano cambiati, ma tutto il resto si. Gianni s’era fatto un bel ragazzone. Spalle larghe da uomo, un velo di barba scura che aggiungeva mistero e contrastava con il suo dolce carattere, mani forti e sicure.

Più tardi, dall’armadio di Gianni uscirono due paia di jeans: uno blu scuro e l’altro di blu un po’ meno scuro, perché scolorito. Una pila di magliette colorate, cinque camicie, un pullover bianco panna (regalo di sua madre, mai messo) sei paia di scarpe lucidissime (ci mancherebbe altro), il giubbotto di pelle nera e una giacca grigio chiaro, e tre cinture.
Dalla cucina sua madre strillò: “E’ pronto” “ Non ci sono a cena, mamma” si sentì rispondere dalla camera di Gianni. “ come non ci sei? Non mangi?” “ Vado a mangiare una pizza” “ Una Pizza? E con chi?” “ con Serena” “ Con Sere… con Serena?” si ripeté sua madre sottovoce non ricordandosi di Serena bambina. E chi era Serena? Dove l’aveva conosciuta? Cosa voleva questa Serena dal suo bambino? Queste e altre cento domande inutili si fece sua madre, che il suo ragazzo lo vedeva ancora con il grembiule e la cartella del primo giorno di scuola, come tutte le madri, d’altronde. Però, poi, smise di fare domande, guardando Gianni con gli occhi e non con il cuore.

Il clacson peperino di un motorino trillò tutta la sua irritazione spazientito dall’attesa. Serena era arrivata. La madre di Gianni non riuscì a non raccomandare al figliolo di stare attento a non sporcarsi la giacca nuova. Non aggiunse altro. Era il suo sguardo, in bilico fra il preoccupato e il felice, a dire il resto. Due minuti dopo Gianni uscì dal portone di casa e ciò che vide lo spaventò. Serena era seduta su di un motorino rosso. “Non ho un casco anche per te, mi dispiace. Dovremo andare a piedi. Tanto non andiamo lontano”. Gli disse Serena. Quella del casco era una battuta confezionata ad arte per prenderlo in giro, come Serena aveva sempre fatto, quando erano piccoli, ma Gianni gliele aveva sempre perdonate le sue battute e anche questa passò. Passò anche l’apprensione datagli dall’aver visto il motorino.

Serena sapeva bene che avrebbe dovuto cavare a Gianni le parole di bocca con le pinze, ma sapeva anche che lei, di parole, ne avrebbe avute in abbondanza per entrambi. Per prima cosa gli chiese perdono per non avergli mai scritto, nemmeno quando era morto suo padre. “ Ho passato un periodo…Strano. Magari un giorno ti racconterò, ma non adesso, scusami. Tutto passato. Passato” gli aveva detto, e l’ultima parola “ passato” l’aveva accompagnata da un gesto di stizza, di fastidio. Poi, camminando, si era avvicinata ed aveva strofinato la schiena di Gianni con la mano. Da bambina gli scompigliava i capelli, ma adesso non ci arriva più. Si era cambiata: jeans, maglietta bianca, scarpe da ginnastica bianche e un golfino blu.

Il monologo di Serena continuò tutta la sera. Gianni ascoltava e solo ogni tanto diceva una o due parole. D’altronde anche per un chiacchierone sarebbe stato difficile arginare il torrente di parole che Serena produceva. Arrivati al dolce Gianni sapeva quanto fosse stato duro il suo liceo e quanto stronzi i professori, tranne uno. Sapeva quanto rompesse la zia Matilde, sempre in piedi a guardare l’orologio della sala quando lei rientrava da scuola; figurarsi quando usciva la sera. Sapeva nome, cognome, età, abitudini e vizi di un sacco di amici di Serena, amici che non erano proprio amici, che avevano sempre qualcosa che a lei non andava bene. Sapeva che in città c’erano un sacco di bar, ma tutti un po’ sfigati. Sapeva che Serena, ma solo per pochissimo, si era messa a cantare in un gruppo rock, lasciando perdere quasi subito la cosa perché, diceva, i “suoi” musicisti non erano abbastanza rock. Sapeva che finito il liceo era rimasta in città perché l’idea di tornare in paese le andava stretta, che era andata a vivere da sola e si era innamorata di Bruno. Sapeva, che ora, con bruno era tutto finito, per carità. Sapeva che Serena era stata in Irlanda, a Londra da degli amici, in Germania, per un concerto, aveva fatto una vacanza in Grecia, in barca a vela, era stata a Roma, a Parigi e a Venezia. Sapeva che era tornata perché sua madre, che con l’età non era più tanto in forma, aveva bisogno di lei.

Sapeva di aver vissuto quei nove anni chiuso in negozio a vendere scarpe che portavano lontano gli altri. C’era gente che andava e tornava ovunque intorno a lui. Anche nei racconti di Serena la gente era sempre in movimento. Magari andava un po’ troppo di corsa, ma andava, vedeva, imparava, tornava e ripartiva. Viveva. Gianni si sentiva una pianta da appartamento. Una di quelle piante che se le sposti patiscono e, a volte, si seccano e sembra che muoiano di nostalgia.

Alla fine Serena si accorse che Gianni si era perso nei suoi pensieri, e che quei pensieri non dovevano essere dei più felici, e allora gli disse: “E’ tutta la sera che parlo di me, di quanto sono cambiata, cresciuta, e invece… Sono sempre la solita bambina stupida ed egoista. Scusami. Ti ho vomitato addosso la mia vita. Ti ho usato cose si usa il cassetto dove riporre le foto dell’estate”.

“Non è colpa tua se sono così come sono”. Aveva risposto Gianni, tornato a sorridere. “Non sei né stupida né egoista. Sei solo sempre tu, e ti prego di non cambiare”. Poi, tirandosi in avanti sul tavolo aveva aggiunto piano “Mi sei mancata. Mi sono mancati i tuoi sfoghi. Ricordi? Venivi sempre da me a lamentarti di tutto, per qualsiasi cosa. Io ascoltavo, ascoltavo, non dicevo niente e tu, quando avevi finito, tornavi a casa contenta. Allora eravamo piccoli e il futuro era lontanissimo. Avevamo un sacco di tempo davanti per guarire: Io dalle mie paure e tu? Non ti andava mai bene niente. Non ti andavi mai bene.
Le cose sono cambiate di poco: io non viaggio veramente, ma ho imparato a viaggiare, a modo mio, ascoltando i racconti di chi è stato per il mondo, senza più esserne invidioso, tu hai viaggiato, hai studiato, non hai perso l’abitudine di lamentarti e ora sei qui, a casa. Io ho bisogno dei tuoi racconti, dei tuoi viaggi, tu hai bisogno di qualcuno che ti ascolti. Ci faremo altre pizze, insieme?”.
“Sai.” rispose Serena, “Ogni volta che andavo da qualche parte pensavo a te e mi mancavi. Mi piacerà rivivere i miei viaggi raccontandoteli. Ingrasseremo a forza di pizze”.

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4 pensiero su “Viaggio rotondo, come la pizza”
  1. Forse non ingrasseranno solamente, forse lui si sbloccherà, o forse a Serena andrà bene anche così, se sarà l’uomo della sua vita, o semplicemente come amico.
    Un bel racconto, 5st.
    Sandra

  2. Un racconto sulla tranquillità dell’ovvio.
    La morale potrebbe essere che la felicità è spesso già dentro di noi e che dovremmo soltanto saperla riconoscere.
    Mi piacciono questi racconti che parlano delle cose semplici e di persone normali mantenendo un tono medio, perchè se nella storia collettiva ricordiamo il nome degli uomini grandi, il loro successo è garantito dalla moltitudine delle persone che vivono dignitosamente la quodidianità e senza strepiti.
    A chi, quindi, il titolo di eroe?
    Ciao
    anna

    5 st.

  3. Forse, tra le righe, Gianni ha imparato a convivere con un handicap mentale piuttosto limitante e che va a toccare la vita di tutti i giorni in modo originale. Risulta molto meno ovvio di Serena. E’ bello vedere come siano complementari e si arricchiscano a vicenda. Sembra quasi che il viaggio più difficile ed avventuroso lo abbia fatto, suo malgrado, proprio Gianni… Bella storia, apparentemente semplice ma dal contenuto poliedrico.

  4. Grazie dei commenti, Sandra e Anna.

    Per chi, nel caso, commenterà ancora avverto che potrò rispondere solo dopo il 23 Agosto. Fino ad allora sarà in Kenia.
    Ciao.
    Grazie.

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