Ho aperto gli occhi. La grande finestra, alla mia destra, non era la finestra di camera mia. Nemmeno il letto era il mio letto. Da fuori la porta della stanza, tutta bianca, nella quale mi trovavo, giungevano suoni e voci che non riconoscevo. Stavo sognando? Non ne ero sicuro. Avevo un mal di testa feroce e la bocca amara, impastata. Ho provato ad alzarmi per andare in bagno, la vescica avrebbe voluto che ce la portassi, in bagno. Le piastrelle del pavimento erano gelate. Sono scivolato giù dal letto, finendo a pancia sotto, a pelle di leone, sul pavimento gelato. M’è parso che tutto quel freddo mi ricordasse qualcosa, qualcosa di buio. Poi, improvvisamente, una parte di pavimento, quella sotto la mia pancia e le mie gambe, s’è fatta tiepida. M’ero pisciato addosso. Stavo bene, nel tiepido. M’è tornato in mente il mare del kenya.
Cadendo dal letto m’ero trascinato dietro un trespolo di metallo. Attaccato al trespolo c’era una bottiglia, che cadendo non si era rotta. Dalla bottiglia partiva un tubicino che finiva sotto a un grosso cerotto appiccicato al mio braccio destro. Era una flebo. Ero in ospedale. Perché? Non ne avevo idea. A mala pena ricordavo chi fossi e di certo ricordavo solo la mia moto. Avevo avuto un incidente in moto? Per quanto stordito mi sentivo tutto intero, ma in quel momento non ho saputo darmi altre spiegazioni. I miei pensieri si inciampavano, scartavano di lato, nascondendosi nei frammenti di altri pensieri. Avevo l’alito cattivo, molto cattivo. Mi facevo schifo da solo da quanto puzzava il mio alito, ma il mio cervello non era in grado di analizzare quella puzza e formulare un’ipotesi, dirmi, in poche parole, che diavolo m’era successo.
Quattro braccia e due voci femminili mi hanno rimesso a letto. Non capivo se stessero parlando fra loro o parlassero a me e nemmeno le ho viste. I miei occhi si sono chiusi, le palpebre pesanti, come portoni massicci. Le quattro braccia mi hanno lavato, hanno cambiato le lenzuola sotto di me senza farmi alzare dal letto, e mi hanno lasciato, nudo, pulito, e solo con il tubicino attaccato al braccio. Mentalmente e molto lentamente ho cominciato a parlare a quel tubo. Mi sembrava l’unica cosa che mi stesse vicina, in quel momento. L’unica presenza, per quanto muta. Meglio muta. Non avrei capito niente di quel che, eventualmente, mi avrebbe detto.
Mi sono presentato, al tubo intendo, e ho immaginato che il tubo mi rispondesse “ Ciao, mi chiamo Tubo”. Eravamo amici. Potevo confidarmi. Non so perché, ma ero certo che Tubo non mi avrebbe sputtanato raccontando in giro le cose che gli avrei raccontato. D’accordo, non stavo tanto bene. Me ne stavo sdraiato sul letto di un ospedale, non sapevo che ore fossero, che giorno fosse e da quanto tempo ero lì. Con qualcuno, qualcosa, dovevo parlare. Sentivo di dover dare delle spiegazioni, ma non avevo idea di cosa dovevo spiegare, o, forse, chiedere.
Ho fatto un bel respiro, uno di quelli lunghi e pieni, cercando di riordinare le idee, i ricordi. Non ne sono sicuro, ma credo d’essermi riaddormentato, per un po’. Quando ho cominciato a sentirmi meglio nessuno martellava più le mie tempie. Sentivo ancora il rumore dei colpi, come tuoni lontani, ma il dolore era sparito. Riuscivo ad articolare dei pensieri semplici, tipo: non ho niente di rotto, anche se mi sento a pezzi. I messaggi che il mio corpo mi sta mandando li ricordo, devo averli già ricevuti, in passato, un passato remoto. Devo aver fatto una cazzata grossa come una casa, un condominio, viste le conseguenze. Tubo, tacendo, confermava. Cos’ho fatto ieri o chissà quanti giorni fa? Facciamo ieri, mi sono detto, semplifichiamo sto casino che ho in testa. Cos’ho fatto ieri? Con chi ero, ieri? Qualcosa mi diceva che non avevo combinato il macello che avevo combinato tutto da solo. Chi c’era con me ieri? Ho fatto un altro respiro, sempre di quelli lunghi e pieni, ho disteso il braccio incerottato dando modo a Tubo di mettersi comodo: Roberto. Roberto, Guido, Michele e Stefania. I colori del quadro impressionista che occupava la parete di fondo dei miei pensieri si sono fermati e riordinati. Un’immagine è comparsa. Coglione. Una cantina, un tavolone di legno massello, bello spesso, varie bottiglie di vino e di grappa vuote, delle croste di formaggio sparse sul tavolo e in terra, due posacenere colmi di cicche, un enorme congelatore in un angolo, di quelli che si aprono dall’alto, e i miei amici, palesemente ubriachi, che continuavano a bere. Ci sono anch’io nel quadro, non mi vedo, ma ci sono. So che ci sono. Sono dentro al congelatore. Il congelatore è acceso.
Come ci sono finito dentro al congelatore? Bella domanda. Cosa passa per la testa di un depresso, sbronzo marcio? Altra bella domanda. Stavo male ieri sera, o quando è stato. Ada, la mia amica Ada, da tre settimane, ha improvvisamente tagliato tutti i ponti fra noi. È sparita. Non ho idea del perché. Devo aver fatto, detto o scritto qualcosa che l’ha offesa. Stavo mentalmente riesaminando, per l’ennesima volta, ogni parola che le avevo detto o scritto nell’ultimo periodo quando ho incontrato Roberto. Erano quasi le sette di sera e me ne stavo andando a casa. Roberto non ha fatto caso al mio umore scuro, o forse ci ha fatto caso e per questo ha insistito perché andassi con lui, a casa di Guido. Conoscendo bene Roberto e Guido sapevo cosa mi aspettava. Non immaginavo di finire dentro a un congelatore, ma sapevo che avremmo bevuto. Il mio programma era: resto per un po’, mi limito, e li mollo prima di perdermi. Pensare ad altro o non pensare affatto era il mio obiettivo per la serata. La storia di Ada stava monopolizzando i miei pensieri. Non sapere, non capire, cosa fosse successo, cosa le avevo detto di tanto grave da far si che lei mi cancellasse dalla sua esistenza mi stava logorando. Avevo bisogno di una tregua. Una serata con gli amici a parlare di sport, donne, problemi elettrici di una barca a vela, motori e altre stupidaggini sui generis, faceva al caso mio. Forse Roberto aveva intuito qualcosa, nei giorni precedenti. Aveva capito che una donna stava frullandomi le cervella. Non sapeva niente di preciso, non conosce Ada, ma conosceva me. Mi conosce da anni, Roberto. Fra Ada e me c’è, c’era, mi tocca dire, una bella amicizia. Quando ci siamo conosciuti, Cupido dormiva. Ada è una bella donna con un fondoschiena da urlo, ma… Niente. Non mi sono mai sentito attratto sessualmente da lei, e credo che nemmeno lei abbia mai pensato a me come amante. La nostra è una bella amicizia, mi diceva. Difficile, alla nostra età, non siamo più dei ragazzini, trovare degli amici veri.
Doveva essere l’ora del pranzo o della cena, lì in ospedale. Un pestilenziale odore di minestrina ha provato a farmi vomitare. Non mi è mai piaciuta la minestrina. Non ne sopporto l’odore, ma il mio stomaco non aveva niente da regalare al pavimento. Era vuoto. Avevo fame. Anche l’unica volta che ho subito un’operazione, una cosetta da poco, quando mi sono risvegliato dall’anestesia avevo fame. Ho aperto gli occhi e a voce alta ho detto “ho fame”. Mia sorella era lì, mi ha sentito e mi ha guardato come si guarda un extraterrestre; lei è stata operata tre volte e tutte e tre le volte, dopo, non è riuscita a mangiare nulla per tre o quattro giorni. Ada non mangia quasi niente. Carotina, succo di limone, insalata (una foglia d’insalata) qualche chicco di riso. Robe così. Va in palestra, in biciletta, in piscina, brucia, brucia, brucia, non mangia e sta in piedi. Come faccia è un mistero. Io sono l’opposto. Lo sport non lo seguo manco in televisione e a tavola mi faccio del male.
Non credo d’aver parlato di Ada con Roberto, guido e Michele, ieri sera. Forse ho raccontato qualcosa a Stefania, nei giorni precedenti il mio congelamento, ora non ricordo. Stefania è la compagna di Roberto. Ci conosciamo da anni ed è la depositaria delle mie confidenze. Se le ho raccontato qualcosa sono certo che non abbia detto niente a nessuno.
Tubo, bottiglia e trespolo, ascoltavano i miei pensieri, in perfetto silenzio. Chi non faceva silenzio era il tipo, vicino a me. Non mi ero accorto di lui, prima. Ancora non riuscivo ad aprire gli occhi per guardarlo, lo sentivo soltanto. Russava. Era Roberto, avrei scoperto più tardi. Russava in un modo strano: ogni tanto interrompeva il ronfare, prendeva fiato e si fermava il mondo. Restava in apnea per un tempo preoccupante e poi, espirava lentamente e ricominciava a russare normalmente.
Io l’alcool lo reggo meno dei miei amici. Non ero più in me quando mi sono infilato nel congelatore. Roberto, Guido e Michele, in quel momento, stavano commentando un calendario. Non era un calendario di santi, madonne e ricette di cucina, ovvio. Non si sono accorti della mia calata nel gelo. Stefania non era ancora arrivata. Lavora in un bar e aveva il turno serale. Il buon Dio, o chi per lui, ha voluto che nessun cliente la trattenesse dietro al bancone. Ci sarei morto, dentro al congelatore, se lei fosse arrivata in ritardo.
A un certo punto un’infermiera è arrivata. Ha trafficato intorno al mio letto per un momento e poi, chinandosi su di me, mi ha baciato in fronte e mi ha detto: “Ciao, stronzo. Ero di turno tre giorni fa, quando ti hanno portato qui. M’è preso un colpo vedendoti in quello stato. So tutto. Roberto e gli altri si sono spaventati da morire, quando gli è passata la sbornia. Roberto è due giorni che sta qui, sulla sdraio, e ti veglia. Quando ti sarai rimesso a dovere ti meno, così impari”. Poi se n’è andata.
E così sono venuto a sapere tre cose: avevo dormito della grossa per tre giorni. Roberto non era ricoverato, come me, ma mi stava vegliando, anche se russava. L’infermiera mi conosceva bene. Chi fosse, però, in quel momento, non ero ancora in grado di ricordarlo.
Parte del mio cervello continuava a dormire. Il mio corpo no. S’era mosso qualcosa, per un attimo, quando l’infermiera, che poi ho scoperto essere Laura, mi aveva baciato. Strana storia anche quella con Laura. Una parentesi che si é aperta anni fa e che io non ho mai chiuso del tutto. Non mi riesce mai di chiudere le storie, di qualsiasi natura esse siano, qualcosa mi rimane fra le dita e finisce per incasinare le mie storie nuove.
Anche per questo non mi do pace con Ada, anche se eravamo solo amici. Sparendo così come ha fatto, ha cancellato ogni segno, ogni filo sottile che poteva riportarmi da lei o poteva riportare lei da me. È un vuoto gelido, quello che m’è rimasto dentro.
Forse era questo vuoto gelido che volevo capire, calandomi nel grosso congelatore.