Eyjafjallajokull: adesso sappiamo cos’è.
Sembra una parola magica, invece è un vulcano dal nome impossibile che condiziona la vita di milioni di persone.
Nubi di fumo di un’eruzione islandese fermano i voli aerei di mezzo mondo.
Migliaia di sfollati del Nuovo Millennio si accampano nei terminal aeroportuali in attesa che qualcosa succeda, che l’Authority preposta decida se la giostra frettolosa del business e dello svago può riprendere; se tutto, come dice la frase fatta, può tornare alla normalità.
Già internet diffonde immagini bellissime di un fenomeno naturale trasmesso in tempo reale, mentre il mezzobusto televisivo intrattiene gli ascoltatori vicini e lontani con le parole compunte dell’esperto di turno, dalla barba folta, che profetizza una nuova era glaciale.
Una cronista solerte intervista il Capo Scout, giunto da New York e diretto a Stoccolma, che, stravaccato per terra coll’immancabile zaino che gli fa da cuscino, dormicchia in un qualsiasi aeroporto del mondo occidentale, aspettando che il tempo passi, che il vulcano si stanchi della sua sfuriata e si rimetta a sonnecchiare.
Lo spettacolo è in presa diretta, mentre la casalinga brianzola prepara la tavola e riduce il gas per tentare di procrastinare la cottura del risotto in attesa che il marito, imbottigliato nel traffico, ritorni a casa, perché anche le autostrade settentrionali che nelle ore di punta già vivono momenti pachidermici, si sono trasformate in lunghe litanie di speranza verso mete divenute miraggi da quando treni, pullman e auto a noleggio vengono presi d’assalto dai facinorosi dello spostamento urgente e ad ogni costo che si riversano nelle strade intasando l’intasabile.
Anch’io faccio al mia parte, accodata in questo corteo anonimo che va, un insieme di migliaia di solitudini racchiuse in scatole con tanto di ruote.
Il cartello luminoso sull’autostrada parla di rallentamenti, ma noi siamo fermi e rassegnati in attesa che il serpentone riprenda vita e avanzi.
Lentamente.
Nel senso opposto anche gli altri veicoli che fino a poco prima procedevano a passo di lumaca, “stanno”, come la quercia dantesca, in attesa di qualcosa di nuovo.
Lo sguardo che vaga tra i capannoni industriali ai margini dell’autostrada e i veicoli intorno, cade sul solito piscione che nella piazzola di sosta crede di essersi appartato e di poter guadagnare un attimo di intimo benessere.
Improvvisamente sbuca dal nulla un’auto della Polizia Stradale con i suoi lampeggianti blu che si accosta al veicolo in sosta tecnica, segnalata dalle luci d’emergenza, con il suo guidatore in panne momentanea.
Deve essere un codice di comportamento prescritto, quello di controllare le auto ferme, soprattutto se ferme tra fermi.
Immagino il colloquio tra Agenti e automobilista.
“Signore, ha bisogno di qualcosa?”.
“No, mi scappa la pipì!”.
E’ una questione di modernità, di Grande Fratello.
Tutto è monitorato: gli incidenti, i veicoli in coda da casello a casello, i mezzi fermi al chilometro X, rallentamenti, incidenti, veicoli in fiamme, neve, grandine, vento forte e conseguente “divieto di percorrenza ai veicoli telonati”.
Evidentemente, però, anche chi fa pipì al bordo della strada, dopo aver acceso le luci di emergenza, è preso in considerazione.
Un colpo basso alla cosiddetta privacy di cui qualcuno si riempie la bocca.
Già, chi è così immacolato da non aver nulla da nascondere?
Eppure tutto ciò è una “conquista” degli ultimi decenni.
Questa storia di luci di emergenza accese e di intervento soccorritore pronto, anzi prontissimo, in una giornata di sbuffi vulcanici, me ne ricorda un’altra, datata intorno a quei primi anni sessanta del secolo scorso che godevano di quel miracolo economico che portò gli Italiani, sopravvissuti alla guerra e a tutto il resto, a palesare il ritrovato benessere nell’acquisto di un’utilitaria, la Cinquecento, la Seicento, l’Ottoecinquanta .
FIAT, naturalmente.
I Terroni del Nord, – non i Veneti, come venivano soprannominati, ma gli altri, quelli “naturalizzati” come direbbero gli Americani, quelli che dal Sud se ne erano andati per forza e che tornavano ad ogni ferragosto per ritrovare i parenti, gli amici, il pane, l’olio, i pomodori e tutti gli odori, i sapori, le sensazioni che fanno radici e appartenenza, – riempivano le stradine dei paesi d’origine di automobili che occupavano mezza carreggiata, creando seri problemi di viabilità ai carretti che tornavano dai campi e facevano dire a chi passava di lì: “Ecco la macchina di Giovanni … Antonio … Michele … Giuseppe. Sono arrivati!”.
Anche Nina tornava, orgogliosa, col marito Gennaro e le figlie, due ragazze brave, schive, allevate con l’affetto di chi sa cosa costava e costa il sacrificio quotidiano dell’impegno familiare in una famiglia modesta.
Tornavano in treno.
Viaggio lungo il loro che durava un pomeriggio, una notte intera e una mattina, con arrivo, dopo ventiquattr’ore, alla stazioncina persa nei campi, per finire col trasbordo sulla corriera che copriva i chilometri dallo scalo al paese sul colle.
Ma un giorno le cose cambiarono: Gennaro si preparò all’esame di guida insieme alla figlia maggiore, fresca diciottenne e maestra diplomata a pieni voti, dopo una lunga preparazione teorica e pratica durata tutto l’inverno. Furono promossi entrambi e, pieno di soddisfazione, comprò in contanti, col frutto dei risparmi accurati, l’auto del riscatto: una fiammeggiante Ottoecinquanta, color azzurrino chiaro e con interni marroncini.
Nina che aveva accompagnato le serate dell’apprendimento del marito con lavori all’uncinetto, confezionò quattro graziosissimi cuscini di pizzo bianco con funzione di poggiatesta per i passeggeri e di reggischiena per guidatore e secondo pilota.
E il primo di agosto, chiusa la ditta, si misero in viaggio, come si conveniva, sull’Autostrada del Sole sulla loro berlina, lavata, lucidata e corredata di ogni comfort: panini, thermos di acqua fresca e caffè per tenersi svegli, frutta e caramelle.
Ovviamente tutti si erano vestiti comodi, il casual non si usava ancora, con pantofole nuove ai piedi, per non sporcare i tappetini della macchina.
Gli autisti patentati erano seduti davanti, i passeggeri sul sedile dietro.
Gennaro, testimoniando la sua autorità paterna, era al volante, Maria Dolores stava al suo fianco.
Seguendo i cartelli stradali, imboccarono l’autostrada e si ritrovarono su quella meraviglia argentata a quattro corsie, due di qua e due di là, che correva verso Sud e verso il riposo annuale.
L’ignaro Gennaro che non aveva mai visto dal vero l’autostrada, si spaventò.
Tutto quel traffico in corsa, tutta quella velocità senza sosta lo intimorirono.
Come fare?
Erano partiti, l’avventura era iniziata, dovevano trovare il modo per arrivare alla meta senza perdere la calma.
Si fermò alla prima piazzola di sosta, si consultò con Dolores ed insieme pensarono a lungo sul come cavarsi d’impaccio.
Decisero.
Gennaro accese le frecce a destra, quelle di emergenza non esistevano ancora, e, bello bello, tenendosi sulla corsia di emergenza, a cinquanta all’ora, conquistò la sua meta.
Trentasei ore di viaggio, ma comodo, con sosterelle per spuntini, pipì, caffè e pisolini ristoratori.
L’ingresso nel paesino natio sarebbe stato trionfale, se qualche altro polentone acquisito non avesse raccontato di aver visto Gennaro e famiglia procedere a passo di lumaca sulla corsia d’emergenza.
Tempi diversi, quelli, in cui nessuna pattuglia della Polizia Stradale chiese a Gennaro se avesse bisogno di qualcosa, nessun tutor lontano e onnipresente, nessun cartello luminoso con la scritta “ Occhio! Veicolo lento: Gennaro va in vacanza!”.
Nessuna violazione della privacy.
Tutti contenti.
Il serpentone lento mi ha riportato indietro in un tempo in cui, forse ci soffermavamo di più sui particolari e soprattutto si apprezzava di più; noi che non abbiamo vissuto, per fortuna, il passaggio della guerra, ma che abbiamo avuto genitori che vivendola, ci hanno trasmesso l’attenzione e la valorizzazione anche delle piccole cose, ormai integrati in quest’era moderna, facciamo memoria alla nostra adolescenza, e mi hai fatto tornare in mente la prima macchina di mio padre “La Topolino”, quando ai primi di agosto, senza nessuna prenotazione di albergo, in quattro: mamma, babbo, io e mio fratello, valige ben strette sopra il cielo della maccchina, ci inoltrammo in quel di Bellaria, a viaggiatura da lumaca.
Tutta una poesia.
Grazie Anna. 5 st.
Sandra
Da tanto non aprivo “Racconti Oltre” e come sempre i tuoi racconti mi prendono, sei bravissima, baci Rina
Un bel racconto, emozioni che solo i bei ricordi scaturiscono.
Scrittura scorrevole e riflessioni originali.
Brava a mille e una stella.
Ciao.
Come sempre i tuoi racconti scivolano veloci nel mio monitor, ma non senza regalarmi preziosi spunti di riflessione e piacevole ilarità. Bravissima!
5st. Alla prossima lettura.
Greta
Ciao Anna,
come sempre, anche questo tuo nuovo racconto è molto bello e piacevole da leggere.
Complimenti e 5 stelle.