“Il pranzo non era male”, pensava Tommy.
“Addirittura il sigaro e pure il vino, che qui non ne capiscono niente. Questa volta era buono”.
Il sole del pomeriggio illuminava a festa la sua tavola.
Sulla parete immagini di santi, una foto di suo padre e sua madre, con lui in mezzo all’età di tredici anni, vestito da uomo, la berretta storta sulla testa, faccia seria.
A fianco una cartolina della statua della Libertà. Tommy sorrise. Come lo guardava seria quella statua, anche la prima volta che era sbarcato in America, ricordava. Era emersa dal mare scuro e freddo, comparsa in mezzo alla nebbia, la fiaccola alzata.
“Guarda Tommasino, guarda! Siamo in America!”
Suo padre e sua madre erano commossi, felici, avvinghiati assieme agli altri sulla ringhiera ghiacciata della nave, in quel sottoponte di poveracci, partiti dall’Italia un mese e mezzo prima.
“Allora mi chiamavo Tommasino, adesso mi chiamano Tommy. Ho fatto grandi progressi”.
Sorrideva, gustando un pezzo di formaggio.
Quanto freddo e quanta fame durante quel viaggio! E quel camerone dove gli uomini dormivano separati dalle donne, quella puzza insopportabile, buio, odore di nafta, il cappottino che non lo riparava dal freddo, che non toglieva quasi mai.
Cercava sempre la mamma nella camerata delle donne, dove raramente poteva accedere, perché aveva tredici anni e doveva stare con gli uomini. L’oceano infinito urlava intorno a loro, nero come il cielo, i marinai urlavano contro di loro “Questo è il vostro ponte! Non oltrepassate la ringhiera!”
A volte, la sera, qualcuno suonava la fisarmonica, nel locale dove si mangiava e sembrava una festa. Allora anche il pane e la zuppa sembravano più caldi e più buoni.
Adesso Tommy non aveva più fame. Mise la camicia nuova, posata sul letto, bianchissima. Gli stava un po’ larga.
Tra poco sarebbe venuto padre Gualtiero. Era delle sue parti, combinazione! Gli parlava dell’infinito in dialetto, ed era bello sentirlo. I pensieri si accavallavano nella testa di Tommy, metà in inglese, metà in dialetto. L’aveva imparato presto l’inglese, chi poteva immaginarlo, su quella nave! Suo padre era analfabeta e anche sua madre. Si spaventavano, sentendo quella lingua.
“Non vi preoccupate, penserò io a voi!” diceva Tommasino, senza staccare lo sguardo dalla statua della Libertà, che lo fissava, severa. Sembrava guardare lui in particolare. Severa. Forse, già sapeva.
Il profumo di quella terra nuova! Le urla degli uomini che indicavano dove andare! Le sirene del porto, le valigie che cadevano a terra, qualcuno che inciampava sulle scale.
Uomini in uniforme indicavano la strada, molti parlavano il loro dialetto con una strana cadenza, l’accento americano, mentre li interrogavano scrivendo i loro nomi sui fogli.
Erano passai tanti anni.
«Sono venuto anche oggi, Tommy.»
Padre Gualtiero lo chiamava con il nome americano.
«Allora possiamo anche andare» rispose Tommy con un leggero sorriso al prete e a quelli che lo accompagnavano.
«Le mani, Tommy» disse un uomo in uniforme.
«Eccole».
E furono chiuse da catene.
«Il Signore è il mio pastore : nulla mi mancherà…»
cominciò a pregare padre Gualtiero lungo il corridoio, indossando la stola viola.
Dalle finestre delle celle sporgevano dita bianche, immobili, si intravedevano sguardi scuri.
«Good luck, Tommy!» disse qualcuno.
«Anche se camminassi in una valle oscura, non temerei alcun male…»
Tommasino guardò estasiato la porta in fondo al corridoio spalancarsi da sola davanti a lui, su una grande sala illuminata a giorno.
Delle persone stavano sedute in un angolo buio. Lo guardavano.
Al centro della sala una sedia di ferro, sopra, sospesa, una corona di cuoio attaccata a un filo.
Era per lui.
“Oh madre mia! Oh padre! Vostro figlio è diventato importante oggi… quanta gente per me! Perdonatemi! Voi non potevate sapere cosa aspettava vostro figlio in America…!”
«… e rimarrò nella casa del Signore per lunghi anni.»
«Amen…»
Amen, Tommasino.