Ieri sera ho guardato “Il silenzio degli innocenti” sicché proprio tranquilla non sono col pensiero che il Dottor Lester è libero di gironzolare con i suoi gusti “particolari”.
Seduta ad un tavolino della biblioteca comunale aspetto l’ora di pranzo cercando di memorizzare i verbi irregolari in inglese perché li ho studiati alle superiori ma sono andati persi qualche giorno dopo l’esame quando ho resettato il cervello per sentirmi più leggera.
Sono uscita di casa di buon mattino, aspettandomi di non trovare nessuno sui libri, giacché sono pochi i ventenni che non dormono fino alle undici il sabato mattina. Varcando la soglia, invece, mi sento ammonire da una giovane voce maschile: “Non chiudere la porta! La maniglia è rotta e rimarremmo chiusi dentro! Poi se ti va… – vedendo la mia espressione il simpaticone cerca di rimediare – ecco… usa il cestino per tenerla aperta!”. Sorridendo di fronte allo splendore e alla cura dei servizi pubblici della mia cittadina prendo il secchio della carta e lo appoggio alla porta che rimane così  socchiusa e offre a me e al mio compagno di studio l’opportunità di origliare per tutta la mattinata i discorsi delle bibliotecarie nella stanza accanto.
Verso le dieci e mezzo, cominciano ad arrivare altri studenti, più o meno addormentati, tutti ugualmente divertiti dalla faccenda della porta.
In effetti, se si è rotta è anche colpa mia, dato che nelle ultime due settimane ho notato il suo progressivo indebolirsi e non mi sono neanche sognata di avvertire il personale.
I miei sensi di colpa sono interrotti dal ragazzo più mattiniero di me che mi chiede se sto studiando per un test d’ammissione all’università.
“No – gli rispondo pronta – ti sembro così piccola?! Beh, sono poco più grande di ciò che pensi. Ho finito il primo anno d’università e mi diletto studiando un po’ l’inglese. Tu invece che fai, prepari la tesi?” non ho voglia di conversare ma è un bel ragazzo e non so resistere ad un breve approccio.
“Anche tu sottovaluti la mia vecchiaia! Sono laureato e faccio la specialistica ma sto per entrare nella Guardia di Finanza e sono tentato di abbandonare gli studi”.
La conversazione prosegue lungo questo filo per qualche incantevole minuto tra i miei tentativi di spronarlo a studiare ancora e i suoi di ricevere consigli più conformi a quello che desidera. Secondo me quando raccontiamo la nostra esperienza ad uno sconosciuto abbiamo la segreta speranza di sentirci dire qualcosa di accomodante e risolutivo come “Smetti pure di sudare sui libri, ne sai già abbastanza” o ancora meglio di scoprire qualche nuova che ci autorizzi a comportarci in modo meno corretto, per esempio: “Ho letto i un disegno di legge che impedisce di continuare gli studi dopo i 23 anni…”.
Alla fine del discorso, però, non mi sposto dalla mia posizione: “Ormai che l’hai iniziata continua la specialistica, può sempre servirti!”.
Rassegnato, il ragazzo belloccio riprende in mano le sue dispense e si rimette a sottolineare con un evidenziatore verde, in tinta con la sua maglietta.
Alle dodici e trenta mi accorgo che siamo soli di nuovo, dopo che tutti gli altri ragazzi sono tornati a casa per il pranzo.
Lo osservo di sottecchi e mi accorgo che sta sottolineando tutto quello che legge, il che può significare due cose: o i prof. di informatica, la sua facoltà, sono geniali e scrivono solo l’essenziale nelle loro dispense oppure, più verosimilmente, il baldo giovane sta vagando con la mente lungo i sentieri circondati di fiori, alberi da frutto e siepi che conducono alla pianificazione del sabato sera con gli amici, senza capire una parola delle novecentotrenta che ha sottolineato. Propendo per la seconda ipotesi e glielo faccio notare.
“Pure tu non sei molto attenta ai tuoi libri d’inglese se perdi tempo a controllarmi maestrina!”.
I ragazzi! Con quelle loro battutine impertinenti ti fanno ridere e ti ritrovi fregata nel giro di nove secondi.
Meglio studiare un altro po’, va!
Mi rimetto sui libri senza rispondere.
Fuori il tempo è un po’ uggioso, quasi come se le nuvole avessero letto sul giornale che è il primo settembre e si fossero messe d’accordo per darci un assaggio d’autunno.
C’è anche un discreto vento, così mi peserà meno la rinuncia ad un pomeriggio di mare in nome del “Dio studio” come lo chiamano i miei amici, convinti che studi troppo.
Di colpo un rumore sordo mi fa sobbalzare mentre cerco di capire il senso della parola “blizzard”, inserita in mezzo ad un brano del mio workbook.
La porta!
“Vaffanculo!” esclama il ragazzo con la maglietta verde che continua: “Porca miseria, che paura!”.
Poi, dopo un bel respiro per riprendersi, china la testa e seguita a fingere di studiare.
Stupita mi alzo, corro verso l’ingresso e mi metto ad armeggiare con la maniglia, o meglio con quello che ne resta, ma in vita mia non sono mai riuscita ad aggiustare qualcosa, tuttalpiù ottengo di romperla del tutto e, infatti, mi resta in mano tutto l’apparato, comprensivo di maniglia e serratura.
“Ehm… bene… sarai contento di sapere che non usciremo più da qui quindi puoi anche smetter di studiare tanto la tesi non la discuterai se non davanti a me!” annuncio al mio compagno di disavventura, mostrandogli la vecchia maniglia rugginosa.
Il belloccio mi rassicura: “Tranquilla basterà chiamare qualcuno o aspettare l’ora di chiusura e ci apriranno dall’esterno.”.
“La biblioteca chiude alle una e trenta e io ho ancora un po’ da studiare, che ne diresti di aspettare? Le bibliotecarie controllano sempre tutte le stanze prima di andarsene, no?!”
“Se non hai paura e non sei claustrofoba direi di aspettare loro, tanto non siamo così concentrati da estraniarci dai rumori esterni!”.
Potrei fermarmi qui ed evitare di scrivere che quelle sono state le “ultime parole famose” ma questo è un passaggio obbligato per arrivare al punto focale della mia storia, perciò procedo.
Ci rimettiamo tutt’e due al lavoro col brillante risultato di non accorgerci del trascorrere del tempo. Sono molto cocciuta, quando deciso di arrivare a pagina 120 non alzo la testa finché non l’ho raggiunta e forse anche il belloccio con la maglietta in tinta con l’evidenziatore si comporta allo stesso modo. Fatto sta che sono le due del pomeriggio e noi siamo sempre qui mentre le bibliotecarie saranno a casa sedute davanti ad un buon piatto di spaghetti al pomodoro.
Penso che andrebbero anche a me, gli spaghetti al pomodoro, ma che dopotutto posso accontentarmi di questa bella avventura. Ho visto un episodio del mio telefilm preferito in cui il protagonista resta chiuso nel caveau di una banca con una bellissima ragazza bionda ed è entusiasta ma lo stesso incapace di sfruttare la ghiotta occasione. Assomiglio molto a quel personaggio e anche in questo caso non mi smentisco rovinando più volte la conversazione con il mio sarcasmo e con l’errorone finale: il racconto che state leggendo.
La parte iniziale è stata scritta quasi in tempo reale, in una pausa dallo studio, su un foglio lasciato in bella vista sul tavolino che il ventaccio stramaledetto non ha mancato di far svolazzare vicino a noi sotto gli occhi del mio amico Matteo – Maglietta – Verde.
Non so come, ma gli occhi gli cadono proprio dove non dovrebbero e cioè sulle parole “però è un bel ragazzo”, sarà perché i ragazzi sono delle potenti calamite per i complimenti o grazie alla mia sfiga proverbiale, in ogni caso cerco di cavarmela con diplomazia:
“Non mi riferivo a te, stavo scrivendo a proposito di quel ragazzo che se n’è andato per ultimo…”.
“Ah quel ragazzo – dice mimando le virgolette con le dita – che ha almeno sessantacinque anni e lavora al museo archeologico? Quello pelato e pieno di nei? Ti facevo più raffinata nei gusti ma rispetto le tue opinioni!”.
Intervengo per far cambiare direzione al discorso: “Resta il fatto che siamo ingabbiati qua dentro fino a lunedì se non troviamo un sistema per uscire!”. Matteo si avvicina, mi restituisce l’inizio del racconto e prende la maniglia dalla mia mano. Mi guarda negli occhi, poi sussurra al mio orecchio: “Magari l’hai fatto apposta a romperla per restare sola con me”. Osservandolo per capire se dice sul serio mi accorgo che è cambiato, non ha più l’espressione scherzosa e un po’ abbattuta di prima. Indietreggio con cautela: “No, tranquillo, sono davvero così incapace da rompere la porta per sbaglio ma posso rimediare con una bella telefonata al 113! Pensa che bello, saremo sul giornale domani e diventeremo lo zimbello del quartiere: “Topi di biblioteca liberati dalla polizia. Adesso sono a piede libero sulle nostre strade”. Già immagino i titoli!” scoppio a ridere mentre cerco il telefonino.
“Non lo trovi?”
“No, eppure ero sicura di averlo. Beh possiamo usare il tuo!”
Matteo non si è mosso di un millimetro e ha sempre quella benedetta maniglia in mano. Non capisco come faccia ad essere così tranquillo. Poi mi pietrifico. Non credo ai miei occhi. Dalla tasca desta dei suoi jeans spunta un cellulare e sono certa che sia il mio perché è un modello che non ha quasi nessuno.
Cazzo. Sembra un film.
“Matteo, scusa, quello non è il mio…”
“Senti, carina, siccome per colpa tua siamo bloccati in una biblioteca del cazzo adesso fai in modo che ne valga la pena! Sarà meglio per te e per me”. Parlando in questo modo, in modo un po’ adirato e molto perentorio mi si avvicina, simile a quegli psicopatici che si vedono nei film americani e che vivono isolati dal resto del mondo in capanni semi-abbandonati e malridotti.
“Peccato sembrava simpatico!”. Giuro che mi è passata questa frase per la testa in quell’istante di terrore.
Mi attacca, cerca di baciarmi ma lo scanso, afferro la sua mano spostandola dietro alla sua schiena e così riesco a puntargli la maniglia dritta nel didietro. Poi gli faccio involontariamente lo sgambetto, così cade contro la porta, che si apre nel momento in cui sto urlando qualcosa d’indecifrabile, perché lui mi tiene per una gamba con forza.
Il destino però, ci ha messo tutto il suo buon cuore facendo dimenticare alla bibliotecaria bionda, la più giovane di tutte, le chiavi di casa nel cassetto, così è dovuta tornare indietro a prenderle. La ragazza ha sentito il rumore e gli strilli e Matteo, che non è un vero criminale ma “solo” un maniaco, nel vederla entrare davanti a noi nel corridoio, molla la presa e si ricompone facendo finta di nulla.
“Che ci fate qui?” chiede la ragazza, piuttosto confusa.
Il seguito con me che scoppio a piangere, l’interrogatorio e tutta la trafila burocratica – medica, ve lo risparmio per concludere con un bel consiglio.
Questa storia di porte, maniglie e chiavi è un piccolo racconto urbano sulla pericolosità della vita di tutti i giorni. Non deve spaventare ma solo far capire in modo divertente che è meglio non fidarsi alla cieca di qualcuno, perché quello che sentiamo al Tg succede davvero anche se lontano da casa nostra.
Un’ultima cosa: il sabato non si studia!

 

Un commento su “La maniglia”
  1. mi sono piaciuti i pezzi nuovi che hai ri-inserito secondo me è proprio tanto carino ora leggo anche gli altri…
    mi sono sbagliata volevo mettere 5 stelline maledetta me che sono indicappata rimedierò cn gli altri…wiiii
    BRAVA

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