Ho ricordi vaghi dell’iniziativa, avevo sostituito un collega ammalatosi all’improvviso (??!!). Era un incontro tra sindacato (il mondo del lavoro si diceva allora) e la scuola. Non era il mio campo, non ero in forma e la sufficienza con cui molti trattavano i sindacalisti (termine spesso usato con tono dispregiativo) mi aveva fatto girare le palle e nel mio intervento non feci niente per nasconderlo.

– – –

Faceva un freddo intenso, stavo infilandomi il cappotto, recuperando velocemente l’uscita della scuola che aveva ospitato l’iniziativa, quando qualcuno, avvicinandosi mi allungò la mano “l’istinto sarebbe di baciarti, ma mi accontento di stringerti la mano. Sei sempre così o è una giornata particolare?” La guardai senza parlare, avevo solo voglia di andarmene in fretta. Lei però non mollava e questo accresceva il mio malumore; mi si era piantata davanti e non sembrava provare nessun imbarazzo per i miei modi bruschi, “quando hai paragonato il provveditore a La Palisse, ho quasi avuto un orgasmo.” Accennai un sorriso.

Piuttosto giovane, quasi sicuramente una studentessa. Non molto alta, un viso impertinente, capelli castani, quasi neri. Innegabilmente bella. Farfugliai qualcosa e m’incamminai, ma non doveva essere il mio giorno fortunato “Posso offrirti qualcosa di caldo? Mi piacerebbe approfondire l’argomento.”

Uscendo dal bar ci scambiammo i numeri di telefono, a tutto pensavo fuorché di rivederla.

Mi sbagliavo.

– – –

Mi ero trattenuto in ufficio ben oltre l’orario, ero di umore nerissimo, una giornata da dimenticare, ma fortunatamente era finita. Stavo togliendo la chiave dalla porta, uno squillo, un altro. Ci mancava pure il telefono, istintivamente guardai l’orologio, 20.47; decisi di non rispondere. Feci le scale a tre gradini per volta, passando davanti all’ufficio della segretaria, udii il telefono che continuava a squillare. Più incuriosito che interessato, entrai e sollevai la cornetta “Pronto” ringhiai, stavo aggiungendo qualcosa, ma una voce decisa m’interruppe, “ciao, sono Lella, ti ricordi di me?” No, dovrei? Dissi con tono irritato. “Certo che dovresti!” Mi spiegò chi fosse e tutto il resto.

Avevo rimosso quell’episodio e nonostante gli sforzi, riuscivo a ricordarmi solo vagamente del suo aspetto. Tentai di tagliare corto, dicendole che avremmo potuto rivederci. “Certo che ci rivedremo, sono qui sotto che aspetto da un’ora.”

Feci l’ultima rampa di scale, rassegnato e di malumore, ma appena me la trovai di fronte, riconsiderai il tutto.

Nonostante il clima ancora freddo, mi aspettava fuori dall’auto, parcheggiata ai bordi della strada, poco lontano dal mio ufficio. Il soprabito, un Burberry bianco, lasciava intravedere la minigonna, la giacca di cachemire aderente, metteva in risalto il corpo ben fatto. Le gambe non erano da meno, ma ciò che davvero colpiva era il viso, soprattutto gli occhi, profondi, penetranti, nerissimi. Qualcosa di bello e al tempo stesso impertinente.

Imparai presto che per lei i convenevoli erano una perdita di tempo. Non avevo ancora messo bene a fuoco la situazione, che già avevo avvisato che non sarei rientrato. “Dove mi porti a cena?” Non rifiutò nessuna delle mie proposte, ma finimmo per scegliere un ristorante, dove non avevo mai messo piede.

Il centro storico di Chioggia era deserto, molto diverso da come si presentava d’estate; pochi locali aperti, poco illuminato, ma nessun senso di desolazione, anzi una sorta di discrezione rassicurante. I parcheggi vuoti lo facevano sembrare più grande e i pochi passanti infreddoliti camminavano spediti, senza curarsi di niente e di nessuno. Qualcuno portava a spasso il cane e temporeggiava facendo finta di interessarsi a qualcosa.
Un uomo anziano in bicicletta, pedalava fischiettando un vecchio motivo di Domenico Modugno, giunto nei nostri paraggi si fermò e chiese una sigaretta. “La fumo a casa,” e riprese a pedalare, canticchiando “Camminava lentamente, con in testa un gran furfante …..”, “turbante”, gridai. “Fa lo stesso”, rispose il vecchio in dialetto, “grazie, buonanotte.”.

Il ristorante era caratteristico, difficile da individuare, soprattutto in questa stagione e a quest’ora. Quasi nascosto all’interno di un cortiletto, non c’erano luci e l’insegna in ferro battuto e rame – L’osteria de Ciosa – doveva essere lì da un secolo. Piccolissimo, otto tavoli, in tutto.
Non era difficile intuire che il vero locale era il pergolato sul retro, che ad occhio e croce poteva ospitare un centinaio di persone.

D’estate vengo di rado, disse, quasi seguendo i miei pensieri, troppo affollato. Sai non sembra ma è un locale molto conosciuto, rimasto immutato negli anni. Non replicai, conoscevo quel posto, anche  se non ero mai entrato, ma puntualizzare sarebbe stato superfluo..

Avevamo occupato un tavolo d’angolo, appartato, intimo. Alle pareti erano appese fotografie in bianco e nero di una regata, probabilmente, la regata di Venezia.

Seppi successivamente, che si trattava della Regata Storica delle Repubbliche Marinare, che, il fratello dell’anziana proprietaria era stato capo voga e le fotografie si riferivano all’edizione nel 1958, vinta superando nell’ordine: Pisa, Genova e Amalfi. Mi sembra anche di ricordare che qualche parente stretto di Lella, facesse parte dell’equipaggio e fosse stato protagonista di una storia d’amore legata a quei luoghi.

Fummo accolti con grande entusiasmo e Lella ascoltò in silenzio, il rimbrotto della coppia, che si lamentava “non ti fai mai vedere, lazzarona”.
Bepi, aveva parlato in un dialetto strettissimo, che nemmeno io, nonostante l’abitudine, riuscii a cogliere per intero. Allontanandosi dal tavolo, mi squadrò con fare inquisitorio, ma si limitò ad uno sguardo interrogativo.

Scommetto che nei suoi pensieri, la chiamava padroncina e non ci voleva molto a capire che mi considerava un intruso.

Nonostante fosse ormai piuttosto tardi, ci proposero una carta ricchissima, che noi rifiutammo affidandoci completamente al cuoco. Per ingannare l’attesa, l’anziana signora ci offrì dei crostini caldi con una specie di bottarga e una marmellata di pomodori che non scorderò più.

Granseola, bibarasse in cassopipa (vongole cotte con soffritto di cipolla), seppioline in umido, accompagnato da una caraffa di vino bianco locale. Tutto squisito, compresa la torta di radicchio rosso che ci portarono a fine pasto. E’ un dessert? Chiesi incuriosito. “Non ho mai avuto il coraggio di chiederlo. Una volta però a mio padre la servirono insieme a un bicchiere di grappa rossa.”

Chiesi il caffè e il conto. Non arrivò né l’uno né l’altro.

Ero piuttosto imbarazzato, ma Lella assicurò che lì, la sua famiglia era di casa e che, se avessimo trovato un locale aperto, avrebbe accettato volentieri un caffè. Aveva l’atteggiamento tipico dei ricchi, non ostentava, ma avvertivo un senso di disagio.

Mi prese sottobraccio, si strinse a me e c’incamminammo. Era il primo contatto fisico, non posso negare: l’effetto era piacevole.

Scendendo dall’auto, si fece promettere che ci saremmo rivisti; “Farebbe piacere anche a me, ma non credi ci sia un po’ di confusione nel gioco delle parti? E sei sicura che …… non rischio la galera?” Ironizzò sui ruoli “Scusa non mi eri sembrato uno cui piaceva fare il macho e rilassati, ho quasi ventidue anni; sono al terzo anno di filosofia e di me, non frega niente a nessuno; ho una specie di …. fidanzato, del quale, non frega niente a me.” Non impeccabile nella forma, un po’ contorto, ma efficace.

Rientrando feci un giro vizioso per percorrere la mia strada preferita, una stradina stretta e poco sicura, che costeggiava un canale; ai lati una campagna stupenda, poche case coloniche e un fascino particolare. Almeno fino a qualche anno fa. Soprattutto in primavera si potevano ammirare i frutteti in fiore (oggi in parte sostituiti da campi di mais) e vicino alla villa, una vecchia casa trasformata in un angolo da favola, da un ricco commerciante di frutta, si potevano scorgere alcuni cavalli correre liberi e infelici dentro un recinto, immenso, ma pur sempre un recinto.

Siccome era notte alta, senza luna e il buio impediva di vedere oltre la fascia dei fari, mi concentrai sulla strada e sulla serata, ricostruendo e analizzando i particolari, andando alla ricerca di qualcosa che facesse svanire il disagio che provavo. Perché quel malessere? Non era successo niente, era la seconda volta e non c’era stato nemmeno un bacio. Niente di compromettente, niente d’impegnativo, niente di niente, e allora?

Il vecchio raccolse le poche forze, si alzò dalla panchina, prese il sacchetto di carta e lo ripose nel cestino dei rifiuti. Quei movimenti gli costavano un’enorme fatica, ma prima di incamminarsi, non mancò di sorridermi. Quanto vale il sorriso di un vecchio? Come si può conservare così gelosamente la propria solitudine?

Avrei dovuto conservare quel vecchio quaderno di poesie e di …….. sensazioni.
Quel ragazzino triste, rassegnato, lontano dal suo mondo, forse ora mi sarebbe d’aiuto. Mi sarebbero d’aiuto i suoi versi, la sua semplicità.
Allora, ignoravo che la solitudine non teme il fuoco. Le parole bruciano, la paura NO.

– – –

Di solito la doccia del mattino fa miracoli, non in questo caso. Arrivai in ufficio di malumore (era una costante in quel periodo) e il lavoro non migliorò la situazione. Lella chiamò circa allo stesso orario della sera precedente, “ti andrebbe di cenare insieme?” Risposi negativamente e in modo piuttosto perentorio. Si limitò ad augurarmi una buona serata. Tornai a casa con lo stesso umore col quale ero uscito il mattino.

Il lavoro m’impegnava molto, rimasi fuori città quasi tutta la settimana, ma questo non servì a distogliere il mio pensiero da lei.
Ero combattuto tra la voglia di rivederla e l’assoluta certezza che ciò mi avrebbe complicato la vita. Purtroppo non sempre prevale il buonsenso.

Ancora una volta, decise tutto lei.

Parcheggiammo l’auto nel cortiletto di una delle tante villette (brutte, impersonali e tutte rigorosamente uguali) che formavano una specie di quartiere, vicino al lago artificiale. Il mare a poche centinaia di metri, la pineta alle spalle, piscina, campi da tennis, maneggio, completavano il tutto.

L’osservai attentamente, tentavo di capire cosa le passasse per la testa. Si muoveva con molta naturalezza, da perfetta padrona di casa, aprì le finestre, tolse alcuni teli dal tavolo e dai divani e li ripiegò in modo accurato. Rispose con un segno affermativo, quando chiesi se era sua, ma non aggiunse altro. Evitò atteggiamenti ed espressioni annoiate che caratterizzano i rampolli di buona famiglia, in simili occasioni.

Entrando in cucina, fece un inchino e con tutta l’ironia possibile, “sei stato tu a vantarti di saperci fare, dimostralo …..”, controllò il frigorifero e sbottò “sarà meglio passare al supermercato, qui c’è solo ghiaccio”.

Ritornai un’ora dopo. Aveva fatto un buon lavoro, non si respirava più quel senso di abbandono proprio delle abitazioni poco utilizzate. Il salotto aveva cambiato faccia, entrava un timido sole dalle fessure delle tapparelle, i colori del tramonto erano bellissimi, anche se sembravano estranei all’ambiente.

Ed ecco, puntuale, il disagio, quel senso di vuoto che non mi abbandonava. Mi tornavano in mente il maneggio, il campo da golf, un ragazzino impaurito e lei che mi osservava senza comprendere. La mia testa rifiutava il presente. Perché dopo tanti anni? Perché ancora quel ragazzino che fugge?

Nella stanza c’era una musica accattivante, ascoltai con più attenzione, inconfondibili Pink Floyd e precisamente The Dark Side of the Moon.

Stronza, pensai, non lasci niente al caso, eh?!

Presi possesso della cucina. Accesi il forno, quasi pregando, “se non funziona …. che cazzo …..” Ma era tutto O.K. Anzi era molto di più, l’attrezzatura era di prim’ordine: batteria completa, tritatutto professionale, coltelli d’ogni tipo, tutto l’occorrente per ogni tipo di cottura; compresa una serie di posate in legno, che io consideravo essenziali.
Preparai verdura e basi varie in un baleno. Era un piacere lavorare così. Era irritante pensare che tutto quel ben di Dio, altro non era, che uno sfizio, accessori quasi inutili per gente troppo ricca.

Ti aiuto o sei di quelli che non sopportano gente intorno? Gridò dal piano di sopra. La seconda che hai detto, gridai a mia volta. PEGGIO PER TE, MI FACCIO UNA PENNICHELLA.

Quando ricomparve, avevo preparato quasi tutto, ci sedemmo in veranda, sorseggiando un bicchiere di vini bianco. “Buono questo vino, cos’è?” Tornai dalla cucina, andavo e venivo continuamente per controllare la cottura e feci per riempirle di nuovo il bicchiere, ma rifiutò. “Ho intenzione di rimanere lucida per darti filo da torcere.”

“Come battuta è mediocre, modo di dire logoro e abusato. Dovrai migliorare, bimba.”

Mi mostrò la lingua e si finse offesa. Rientrammo in casa, io in cucina, lei in sala alle prese con la tavola da apparecchiare. “Se trovi difficoltà, puoi sempre telefonare perché ti mandino qualcuno!” Voleva essere una battuta, ma il tono era così deciso, da risultare offensivo.

Non reagì e gliene fui grato.

– – –

Voilà, spero che sia tutto di tuo gradimento. Carta e lista dei vini:

Tartine con il caviale e bocconcini al salmone, purtroppo il premier cru (champagne blanc de blancs chardonnay, del 1980), che mi era costato tanta fatica, l’enoteca era chiusa e il mio fascino sembrava non bastare, alla fine però prevalse sulle perplessità della ragazza intenta a pulire il banco, non era ghiacciato al punto giusto.

Un risotto con i gamberetti al profumo di zenzero e un branzino al cartoccio, bagnato con un Chateau Margerots (stessa ragazza, stessa enoteca) e un gelato di crema, completavano la cena.

Meraviglioso. Hai in serbo altre sorprese? Mi guardò in modo malizioso. Una vampata di rossore evidenziò il mio disagio, ma scelsi il silenzio.

Lella versò del rum, accese due sigarette, invece di allungarmene una, si accovacciò sul divano vicino a me, baciandomi a lungo. Sentivo la sua lingua combattere con la mia, baciava benissimo, ma non c’era dolcezza in quel gesto, anzi sembrava brandire un’arma, pareva voler prendere il sopravvento a tutti i costi, io non mi sottrassi e il bacio fu talmente lungo che le Multifilter si consumarono nel posacenere senza che nessuno dei due avesse fatto nemmeno un tiro.

Il nostro primo bacio.

Le accarezzai i capelli, le sfiorai la fronte con le labbra, la strinsi forte. Lei si lasciò andare, l’espressione contratta lasciò il posto ad un sorriso appena accennato, i suoi occhi splendevano in modo inverosimile. Occhi incredibilmente penetranti.

Riaccese altre due sigarette, ignorò il liquore, si alzò, mi prese la mano e in silenzio, mi condusse al piano di sopra.

Doveva essere la stanza dei suoi, perché il letto era matrimoniale e si avvertiva una presenza maschile, alle pareti non c’erano quadri, ma solo piccole mensole, due erano zeppe d’oggettini particolari, una terza, poco più grande, adibita a libreria. Molti fumetti, soprattutto,Topolino e Alan Ford, ma anche molti classici, Mar Morto di Jorge Amado, Un’estate pericolosa di Hemingway, Racconti di Arthur Miller, La Bibbia.

Avevo fatto la doccia e mentre aspettavo (lei aveva insistito per farla insieme, ma io avevo tergiversato …..) curiosai un po’; nei cassetti c’era biancheria intima, maschile e femminile, nell’armadio, poche cose, per la stagione estiva. In uno dei cassetti del comodino, trovai una pistola finta, una Colt 45, un modello di gran pregio. “E’ un vezzo di mio padre.” Mi girai di scatto, con l’espressione di chi viene colto in fallo, ma lei non sembrò dare importanza alla cosa.

La guardai, era in piedi, bagnata e coperta solamente da un minuscolo asciugamano, che esaltava ancora di più la sua nudità; sembrava ancora più giovane. “Sei bellissima, ma non credo sia la cosa giusta, ” fui sorpreso di sentire la mia voce, non mi ero reso conto di parlare.

Lella si avvicinò, non puoi farmi questo, disse e mi strinse con forza. Mi baciò, questa volta dolcemente, trasmetteva sensazioni forti. Non c’era seduzione in quella nudità, non c’era provocazione in quei gesti.

Non sono mai riuscito a dare una risposta a quegli interrogativi, non sono mai riuscito a vincere del tutto quel disagio e quando lei mi guardava in silenzio, sentivo il desiderio di fuggire.

A volte però, per fuggire ci vuole coraggio.

Mentre facevamo l’amore, non potevo fare a meno di guardarla, l’espressione era distante, non sembrava per nulla la donna che aveva imposto la sua presenza, fin dal primo incontro. Sembrava cimentarsi in una sfida, e anche se contrariamente a quanto il suo precedente comportamento, avrebbe fatto supporre, non aveva molta esperienza.

Non si negava, ma non prendeva mai l’iniziativa e sembrava anche un po’ impacciata.

Osservavo la cenere della Multifilter in procinto di cadere da un momento all’altro. Tenevo la sigaretta in verticale, ferma.
Il nostro rapporto pareva dipendere da quel gioco, lei restò immobile.

“Posso fare una doccia?” Lella scoppiò a ridere, trovava anacronistico che dopo essere stati insieme, io chiedessi il permesso anche per le cose più banali.

Guarda che abbiamo solo scopato, non ho conquistato il forte, non pianto la bandiera, non ho intenzione di accampare diritti. 

Non saprò mai cosa avrebbe risposto ………..

Mi raggiunse nella doccia, cominciò a baciarmi, ricominciammo. Era un’altra. Questa volta non c’erano fantasmi, eravamo un uomo e una donna; furono momenti di grande intensità. Mi prese una mano e l’appoggiò sul seno sinistro, il cuore batteva forte “non sono una puttanella, non era un’imboscata. Devi credermi. Per favore.” Il tono della voce era deciso, tutt’altro che implorante. Non risposi, ma continuai ad accarezzarle i capelli bagnati con la mano destra, mentre con il braccio sinistro la stringevo forte. Non fece domande, rimanemmo in silenzio, non so per quanto tempo.

Uscimmo che era ormai notte fonda, la luna illuminava il quartiere completamente deserto, la stagione balneare era ancora lontana e questo conferiva un fascino particolare a quei luoghi. Le ombre degli alberi sembravano immense guardie, impettite ed orgogliose del proprio ruolo.

“Non ti libererai facilmente di me.” Lella mi fissava e il tono era volutamente perentorio, aggiunse che era consapevole della situazione, che non avrebbe forzato, che non pretendeva niente, ma che non voleva perdermi. “Almeno per ora.”

Le ultime parole, quasi sussurrate, le aveva pronunciate scendendo dall’auto.

Inutile chiedere spiegazioni, la partita era appena iniziata e tutto lasciava presagire che sarebbe stata piuttosto impegnativa.

 

Un pensiero su “Un incontro casuale”
  1. Bello, di piacevole lettura e descrizioni intense.
    Accipicchia che donne volitive! Viziata o no,
    é sicuramente un personaggio !
    Ciao. Sandra

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