Sono sempre stato attratto dalle donne sbagliate. Intendo quelle meno adatte per uno come me. Uno che a quasi quarant’anni porta ancora l’orecchino, i capelli lunghi, spettinati, e si veste come un ragazzino in pieno periodo Grunge. Abbastanza freak ma piuttosto obsoleto. Un rivoluzionario di città, insomma. Quindi c’è da stupirsi pensando che le donne che più di tutte stuzzicano la mia fantasia e la mia libido siano quelle della media borghesia, quelle con le scarpe sempre alla moda e i vestiti ostentatamente costosi e firmati. Mi piacciono perché quel loro essere visibilmente delle arricchite non riesce a nascondere una loro origine popolare, volgare. Anzi, è proprio quella volgarità marcata che mi fa perdere la testa. Popolane vestite Prada. Mi mandano ai pazzi. Il mio primo amore era una di loro, la figlia di un produttore di tappi di sughero. Aveva diciassette anni ma ne dimostrava venticinque, sempre perfetta, sempre giusta. Sedeva al banco di fronte al mio, ricordo che avvertivo dei mancamenti ogni volta che mi fissavo a guardarle i capelli o riuscivo a sentire il profumo che emanava. Tutto in lei diceva “Prendimi, amami, fammi tua!” eppure era soltanto una snob di prima categoria e non si faceva “prendere” da nessuno che non avesse almeno una moto e due caschi. Io allora come ora avevo solo l’abbonamento mensile. I primi desideri, le prime proiezioni mentali erano tutte su di lei, per lei, con lei. Protagonista assoluta. Purtroppo fui rimandato a settembre, in ragioneria e tecnica bancaria. Mi presentai ubriaco e con un pigiama a righe. Scrissi una serie di calcoli casuali sperando per lo meno di far arrabbiare la professoressa di entrambe quelle odiate materie. Lei, Deborah, così si chiamava, la vidi solo nei corridoi della scuola durante la ricreazione e poi la persi definitivamente di vista.
Immaginate il mio stupore quando l’altra sera l’ho vista seduta ad un tavolo di un locale notturno dove stavo bevendo della birra e scribacchiando su una salvietta di carta umidiccia. L’ho riconosciuta subito. Era esattamente come mi sarei aspettato che diventasse. I tacchi alti, tipo fetish, la bocca carnosa, lo sguardo intenso, vestita in modo impeccabile, chic e allo stesso tempo appunto volgare, la pelle abbronzantissima, i seni… beh, decisamente nuovi di zecca ma una favola. Anche gli zigomi erano leggermente più alti, un po’ troppo alti forse, le unghie rosso scuro, anche quelle un po’ troppo lunghe. Insomma aveva l’aspetto di una… Quella!
Quando mi ha visto, con mia enorme sorpresa, ha sorriso, si è alzata ed è venuta risoluta verso di me. Il cuore mi era balzato nel petto e batteva fortissimo, le mani erano diventate all’istante sudaticce e il pomo d’Adamo aveva avuto una forte contrazione dovuta ad una improvvisa quanto inaspettata secchezza delle fauci. Quando fu a qualche passo da me mi fece vedere i suoi denti bianchissimi che sulla sua carnagione scura parevano ancora più candidi.
“Ti ricordi di me?” disse.
“E come potrei non ricordarti?” pensai, ma il cortocircuito cervello-ricordi-sesso mi fece uscire di bocca solo uno striminzito “Ehm… Certo….”.
“Posso?” chiese indicando uno sgabello accanto al mio e senza aspettare una risposta si sedette di fronte a me, fissandomi con quegli occhi neri che avevo tanto amato da ragazzo.
“Bevi qualcosa?” chiesi goffamente. Anche questa volta non rispose ma si rivolse al cameriere dietro al banco e ordinò un vodka-tonic. Ero senza fiato e quindi senza parole. Era lì, vicino a me, bella e snob come da ragazzina. Un’eccitazione spaventosa mi crebbe dentro con la velocità di un battito di ciglia.
“Quanto… tempo, eh?… Deborah” bofonchiai stupidamente.
“Alexandra” rispose questa volta come una maestrina che riprende un alunno svogliato e non ammette repliche.
Allora mi scappò una risatina quasi isterica e le dissi: “Perché, ti fai chiamare così adesso, cos’è un nome d’arte?” e continuai a ridere.
“E’ il mio nome” rispose con un tono che mi parve trasmettere un velo di tristezza. Poi si girò di scatto verso di me e mi guardò con un lampo negli occhi che mi parve odio. Ma perché mai avrebbe dovuto odiarmi, a scuola nemmeno sapeva che esistevo.
“Sei davvero sicuro di ricordarti di me?” se ne uscì indagatrice.
“Si, si, te l’ho detto, mi ricordo perfettamente di te”. Lasciai una pausa ad effetto assolutamente inconsapevole e poi aggiunsi “Avevo una tale cotta per te a scuola”.
Lei senza staccare gli occhi dal bicchiere sorrise fra sé e poi disse a bruciapelo, senza preoccuparsi della bomba innescata che stava lanciando: “Anch’io”.
Il cuore che prima batteva come un martello pneumatico smise per un istante di pulsare. Ero tecnicamente morto anche se per un millesimo di secondo. Non potevo credere alle mie orecchie. Non poteva essere vero. Dopo quasi ventidue anni venivo a sapere che la ragazzina più desiderata da noi adolescenti in piena tempesta ormonale aveva amato me o almeno lo aveva creduto. No, stavo forse sognando. Era un pessimo scherzo, davvero di cattivo gusto e infatti le dissi a muso duro: “Scherzi, vero?”.
Lei non rispose subito ma tornò a guardarmi questa volta con uno sguardo pieno di promesse. Gustò il suo vodka-tonic e infine disse: “No, non sto scherzando. Sapessi quanto ti ho pensato in questi anni. E’ per te, solo per te che sono quella che sono ora. Sembra incredibile, vero? Ma è proprio l’assurdità che spesso crea le realtà più vere. Io sono un tuo prodotto, mio unico amore. Ti ho cercato. Ti ho trovato dopo tanti anni e sono venuta qui, nella città in cui vivi per rivederti, per dirti, eccomi, mi vuoi? Io sono tua, capisci, solo tua, lo sono sempre stata”.
Ero come immerso in un pozzo d’acqua. Le orecchie mi fischiavano, il sangue mi bolliva nelle vene, la gioia mi esplose dentro con una deflagrazione che, considerai, si sarebbe sentita a centinaia di chilometri. Come è strana la vita, mi dissi. Come è bella la vita, pensai. Improvvisamente mi vennero le lacrime. Ero commosso, incredulo e frastornato, così cominciai a piangere e lei mi prese fra le braccia lunghe, sode, color bronzo e mi strinse sul suo petto di silicone ma tanto comodo. Io naturalmente la lasciai fare e fra le lacrime ripetevo il suo nome inebetito.
“Deborah, Deborah, Deborah….”
Lei allora portò la sua bocca al mio orecchio e mi bisbigliò dolcemente: “Non chiamarmi più con quel nome, amore mio… Io non sono quella Deborah. Visto sciocchino che non ti ricordi. Il mio nome è Marco…”.
Spalancai gli occhi con uno scatto rapidissimo.
“Oddio, Marco, il mio compagno di banco!”

 

2 pensiero su “Vecchi amori”
  1. Oh, tempora! Oh, mores!…
    Racconto divertente che tiene viva l’attenzione fino all’ultimo.

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